Il consiglio di zona 1 a Milano ha deciso di chiedere al sindaco Sala di “limitare l’accesso al centro storico permettendo l’ingresso in Area C solo ai residenti o ai mezzi di distribuzione in determinate fasce orarie”. La motivazione di questa richiesta rientrerebbe in una serie di iniziative per limitare l’uso delle auto e in generale per una nuova mobilità green.
È chiaro, nel caso specifico, che una norma apparentemente neutra come sarebbe quella auspicata migliora la vita degli abitanti di zona 1 e peggiora quella di tutti gli altri. I primi possono entrare e uscire quando vogliono, si trovano in un quartiere più vivibile senza dover incorrere in alcun sacrificio; i secondi sono obbligati a scegliere i mezzi pubblici anche quando sconvenienti per ragioni economiche o scomodi per ragioni logistiche. Se non abitano vicini ai mezzi, poi, tanto peggio per loro.
Quanto accade a Milano presenta caratteristiche comuni ad altre vicende. L’obbligo di sostituzione di una macchina vecchia e inquinante si applica sia alla famiglia monoreddito che fa dieci chilometri la settimana per andare al supermercato, sia a quella che ogni weekend percorre centinaia di chilometri per andare nella seconda casa; sia a chi abita in un paese o in periferia e deve usare la macchina per andare al lavoro, sia a quelli che “abitano in centro” e hanno la metropolitana sotto casa. Nessuna considerazione né per i redditi né per il fatto, tanto semplice, che in alcuni casi la sostituzione di una macchina vecchia che fa pochissimi chilometri con una nuova è certamente più impattante per l’ambiente. Nessuna considerazione, ovviamente, per la qualità della vita di chi non ha i soldi per abitare nella grande città e tanto meno in zona 1.
Ma è esattamente ciò che vale per le norme sulla classe energetica delle case. Anche in questo caso nessuna considerazione per i costi di ristrutturazione: impossibili da affrontare per la classe media o per i meno abbienti, che tendenzialmente non abitano nei centri delle grandi città per ragioni economiche, e sostanzialmente trascurabili per gli abitanti di zona 1 o dei centri storici.
Di tutto questo si parla poco, perché non siamo ancora usciti dalla narrazione con cui è stato costruito il consenso per la transizione green: un impegno – apparentemente – a costo zero, o comunque con sacrifici minimali che in ogni caso non cambiano la qualità della vita; un po’ come l’elemosina in chiesa.
In realtà, più passa il tempo – e il caso di Milano lo dimostra in modo plateale – più si accumula l’evidenza che i costi, enormi, della transizione dividono le persone tra chi ha la macchina “full electric” e chi non ce l’ha, tra chi ha la casa in classe A+ e chi accantona per sempre il sogno di un immobile di proprietà, tra chi si gode la vita nel centro storico di una grande città e chi è fisicamente costretto a rimanerne fuori. I primi subiscono un drammatico peggioramento della propria qualità della vita, ai secondi rimangono i vantaggi. I mezzi pubblici, tra l’altro pagati dalle tasse di tutti, sono a servizio di una piccola parte, mentre le strade che migliorano per davvero la vita di tutti sono un tabù.
Mentre leggevamo delle ultime proposte uscite dal consiglio di zona 1 è stato inevitabile pensare al film In time (2011) diretto da Andrew Niccol. La pellicola immaginava uno scenario distopico con gli abitanti segregati, per ragioni economiche, in zone compartimentate: gli anelli periferici destinati a una popolazione costretta a vivere in un quadro post-apocalittico e quella degli anelli centrali in una sorta di utopia realizzata. Ma a che prezzo? Il film non ci aveva detto cosa avesse prodotto questo mondo distopico. Dodici anni dopo, invece, lo possiamo intravedere. Niente serve meglio i ricchi e peggio i poveri dell’attuare la “rivoluzione” green. Il fatto che essa sia sempre di più l’ideologia dei primi, lo conferma.
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