Milano, una città tramortita dai colpi del Covid 19, con migliaia di contagi, tanti morti, un’economia messa in ginocchio, centinaia di aziende e esercizi commerciali costretti a chiudere, alcuni per non riaprire più. Colpi duri, ma la città non è andata al tappeto, è stata capace di resistere e di rialzarsi. Perché a Milano c’è (ancora) un popolo che vive, erede di una storia intessuta di capacità di iniziativa e di spirito di solidarietà che l’hanno resa capace di affrontare momenti di crisi e circostanze avverse nel segno di un inesausto desiderio di costruttività. Tre piccole ma vivaci realtà associative – Associazione Charles Péguy, Circolo Feltre e Club in uscita – hanno invitato a parlarne uno storico, Edoardo Bressan, un imprenditore come Marco Tronchetti Provera, e Giorgio Vittadini, presidente della Fondazione per la sussidiarietà, in un incontro in streaming che rimane disponibile sul canale YouTube del Circolo Feltre e che nelle intenzioni dei promotori segna l’inizio di un percorso per cercare punti di novità a cui guardare. Non era facile il compito affidato a Bressan, che nel poco tempo a disposizione è riuscito a dare conto della vocazione solidaristica della città, dove opere nate dalla tradizione cristiana (come l’ospedale della Ca’ Granda, il Pio Albergo Trivulzio per gli anziani e due luoghi di accoglienza per gli orfani come i “Martinitt” e le Stelline) hanno rappresentato per secoli l’abbraccio della città alle necessità del popolo. Ad esse si sono più tardi aggiunte iniziative promosse nel segno di una filantropia di ispirazione laica che con l’anima cattolica ha sempre mantenuto un rapporto di complementarietà più che di concorrenza o tantomeno di ostilità. Ed è questo robusto ordito di solidarietà, caratterizzato da una collaborazione feconda tra pubblico e privato e da un protagonismo vitale dei corpi intermedi, che ha consentito la tenuta del tessuto sociale anche nei momenti duri.
È significativo che uno spirito laico come Tronchetti Provera abbia citato una frase pronunciata dal vescovo Ariberto Intignano nel 1118 come espressione sintetica dello spirito della città: “Se avete voglia di lavorare, venite a Milano. Milano vi renderà uomini liberi”. Una città “orizzontale”, come l’ha definita l’amministratore delegato della Pirelli, dove il fare impresa non è avulso dal contesto umano in cui si opera, e dove alla logica dello scambio, del “do ut des”, si preferisce quella del “fare per”, e dove la ricerca del profitto ha sempre fatto i conti con la preoccupazione per uno sviluppo equilibrato del contesto sociale. “Le ferite inferte dalla pandemia resteranno a lungo aperte – ha ammesso -, ma qui non mancano le risorse per la ripartenza. Due le strade maestre da intraprendere: un gigantesco investimento su educazione e formazione, che può fare leva anche su un tessuto di università e ricerca di assoluta eccellenza, e la costruzione di un ‘cuscinetto sociale’ che sappia dare la garanzia di un lavoro dignitoso a chi è rimasto indietro. Perché da questa crisi si esce solo insieme, non ci si salva da soli”.
Vittadini indica un tratto caratteristico della storia recente di Milano nella sussidiarietà, “che si traduce nella capacità di valorizzare le energie positive che si muovono nel corpo sociale, senza pretese dirigistiche e senza illudersi che per crescere ci si debba affidare al demiurgo di turno o all’onnipresenza dello Stato”. E ricorda, citando un intervento di don Giussani del 1987, che il punto sorgivo della sussidiarietà sta nella forza del desiderio che muove ogni persona e che è capace di generare novità. Ma la persona non vive per sé, si mette insieme ad altri per una costruzione comune, come testimonia la ricchezza di iniziative sorte nel tempo a Milano: associazioni e circoli culturali, parrocchie, luoghi che promuovono socialità e offrono aiuto materiale. Per ripartire dopo i colpi inferti dalla pandemia c’è bisogno di gente disponibile a mettersi in gioco, ad ascoltare e valorizzare, ad accettare la sfida dell’incontro con l’altro e della contaminazione reciproca come occasione per la costruzione di novità. E così si può diventare visionari, per andare oltre il piccolo cabotaggio e far crescere la capacità di progettare in grande, disposti ad affrontare anche il rischio di sbagliare. “Perché si potrà anche sbagliare, ma è meglio avere un rimorso che un rimpianto”.
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