Come valuta il modo in cui in questi mesi è stata portata avanti la candidatura di Milano per l’Expo 2015?
Sulla gestione della candidatura mi pare che si siano fatte delle buone cose, in particolare per l’accoglienza dei commissari, dove mi sembra che le cose fatte siano state anche molto apprezzate. In particolar modo mi pare di poter dire che il sindaco di Milano, Letizia Moratti, si sia spesa in prima persona in maniera esemplare, anche mettendoci del proprio e credendoci molto. Alla fine molto dell’eventuale successo è dovuto a questo, cioè il fattore umano di chi si spende in prima persona. È questo che fa la differenza. Oltre all’impegno della Moratti, ci sono stati poi anche l’impegno e il coinvolgimento del presidente della Regione Lombardia Roberto Formigoni, e anche del presidente della provincia Filippo Penati. Tutti si sono comportati in maniera sicuramente positiva.
Ma peserà di più la buona gestione della candidatura, o gli intrecci nei rapporti internazionali che stanno dietro alla votazione finale?
Per quanto riguarda i rapporti internazionali, l’Italia è un Paese sicuramente molto importante, ma ci sono cose che naturalmente non può controllare. Condoleeza Rice ha parlato a favore della Turchia: a quel punto non vale più la candidatura in sé, ma ci sono valutazioni geopolitiche che esulano dal fatto in sé. Io credo che dal punto di vista del contenuto Milano non abbia nulla da rimproverarsi; dopodichè, se i movimenti geopolitici degli Stati Uniti vanno a favore della Turchia, perché ha un’alleanza da fare in determinati settori, allora significa che sono entrati in camo fattori che certo non si possono controllare. Se inizia, diciamo così, «la deriva dei continenti», con un avvicinamento dell’America alla Turchia, non basta più l’impegno di un sindaco.
La battaglia per la vittoria di Milano è una questione che riguarda solo la città stessa, e la zona geografica ad essa vicina, o è invece una questione nazionale?
Se fossimo un Paese normale (come diceva D’Alema, ma non nel senso in cui lo diceva lui), sarebbe una questione di importanza nazionale. Ma la disattenzione al Nord di quest’ultimo governo è stata evidente a tutti. È la ben nota questione settentrionale, che ha riguardato e riguarda anche l’Expo. Quindi direi che l’impegno doveva essere maggiore.
Qual è lo scenario in caso di vittoria di Milano?
Se vinciamo, lo scenario che si crea è l’occasione per Milano di rilanciare Milano, in particolare a partire dal tessuto periferico e dall’immagine di questa città. Per quanto riguarda la periferia, in particolar modo, è arrivato il momento di far diventare città quella parte che città ancora non è: abbiamo una Milano molto bella, fatta di Medioevo, Rinascimento, del Novecento; quella città che tutti conoscono. Poi ce n’è invece una più brutta, fatta così non perché i milanesi che vivono là sono più brutti, ma perché la politica l’ha fatta male. Quella parte va rifatta come una vera città moderna, imparando da chi ha rifatto le città moderne come Barcellona.
In caso di sconfitta, invece, che cosa cambia per Milano e per l’Italia?
Io non sono del partito dei catastrofisti: non è vero che se si perde non si possono fare più determinate cose, o che, come si suol dire, «abbiamo perso l’ultimo treno», o altre cose simili. Ma quale ultimo treno! Non siamo un paesino dell’Africa sub-sahariana. Di treni ne passeranno ancora a migliaia, ne passa uno ogni giorno di treno. Anzi, il vero treno è quello della globalizzazione, che è un treno che non si arresta.
Quindi è possibile, come auspicato da Sergio Romano nell’editoriale di oggi del Corriere della Sera, che i «progetti preparati nella prospettiva dell’evento» possano essere «realizzati»?
Ovviamente, è una questione di buon senso. Non c’è bisogno di essere Sergio Romano per dirlo, basta anche essere Paolo Del Debbio.