La questione importante su cui vorrei soffermarmi è il contenuto dell’Expo: “Nutrire il pianeta, energia per la vita”. Se non centriamo l’argomento, è poi difficile che la gente decida di venire all’evento.
Quando abbiamo curato il numero di Atlantide, in novembre, abbiamo tenuto conto delle preoccupazioni e del modo di interpretare il problema che era tipico di quel periodo: clima, energia, ambiente, disuguaglianze. Intendo dire che il grande tema dell’alimentazione era vissuto allora in una prospettiva di lunghissimo periodo. Ora, a sette mesi di distanza, il tema è completamente diverso: la grande esplosione del problema alimentare in relazione ai problemi energetici ha fatto sì che il tema “Nutrire il pianeta energia per la vita” assumesse una prospettiva di breve periodo, dovuta alla presenza di un problema attualmente irrisolto. Come fare in modo che il cibo serva tutto il mondo, in un momento in cui nel brevissimo periodo è venuto meno e possono scatenarsi rivoluzioni enormi? È una situazione drammatica, perché la “chiave” del problema non è in mano a nessuno.
Nel momento in cui avanza l’idea di sopperire alla crisi energetica con prodotti che vengono dall’agricoltura, è evidente che si viene a creare un’antinomia clamorosa. È un problema culturale che dobbiamo affrontare, e che io voglio mettere in rilievo. Organizzare l’Expo senza affrontare questo tema sarebbe come comprare un’enciclopedia in cui c’è tutto, metterla in libreria, e poi accorgersi che non si sa nulla. È dunque necessario centrare il tema culturale.
Come risolvere il problema? Il recente convegno della Fao ha dimostrato che questi temi non possono più essere affrontati come si è fatto fino ad ora. Gli Stati non sono in grado da soli e con i modelli econometrici di affrontare queste sfide. Il clamoroso fallimento del vertice Fao indica che il problema non si risolve perché sette, otto, o cento capi di Stato si incontrano, o perché c’è un modello interpretativo. Resta vero che l’Expo non deve “risolvere” questo problema; ma deve comunque fornire un’interpretazione culturale. Non possono, ripeto, essere gli Stati a farlo, né può nascere dai modelli dei grandi economisti, che sono magari perfetti ma non tengono dentro le cose che accadono.
Qual è allora il compito dell’Expo? Qui viene fuori l’idea di sussidiarietà. C’è qualcuno che in giro per il mondo ha cominciato sul piano tecnologico, culturale, economico, ad affrontare il problema e a mostrarci qualcosa di significativo? Il premio Nobel Yunus, ideatore del microcredito, ha mostrato che si possono affrontare problemi di tipo economico con modelli non strettamente egoistici. Il microcredito non risolve i problemi del mondo, ma è una piccola esperienza significativa.
È una grande chiamata alle armi. L’Expo deve chiamare a raccolta le good practices di tutto il mondo, perché solo così si può capire che su 7 miliardi di persone, ce ne possono esser 100 milioni che possono provare ad affrontare la crisi. Un’Expo non è una rassegna dispersiva, e neanche un teorema; può essere l’esposizione di progetti, modi che raccontano e fanno vedere a tutti come si sta affrontando il problema. Quando si parla di sussidiarietà gli Stati devono essere molto più “forti”, perché si è molto più forti nel catalogare delle esperienze, che non nel fare tutto in casa. Ci vuole un forte soggetto culturale che sappia dire a tutti “venite a raccontare le vostre esperienze”, dalla multinazionale al piccolo esperimento sociale in un paese del Terzo mondo. Questo secondo me è il punto in cui si vice la battaglia culturale; ed è quello che dice sempre il sindaco Moratti, parlando di un centro per lo sviluppo in cui ci siano esperienze positive da tutto il mondo. Potremo vedere allora qualcosa di diverso dallo schema Fao: non qualcosa che pretende di risolvere i problemi, ma che dà una spinta.
L’Italia è un Paese fatto per questo: è il Paese del “misto”, del pubblico-privato, del grande-piccolo, dell’imprenditoria diffusa e delle realtà sociali. Un Paese centralizzato non può affrontare queste cose, può farlo invece un paese diversificato, “geneticamente” vario, che ha la biodiversità umana e imprenditoriale capace di dare mille soluzioni. Ecco perchè possiamo essere interessanti per molti Paesi, perché questi grandi problemi non si affrontano né con lo statalismo né con la multinazionale. Come diceva D’Alema, è il nostro stesso modello, ancor prima di entrare in “campo”, ad essere interessante. Abbiamo la potenzialità culturale per affrontare questa sfida. Poi, per farlo, bisogna essere insieme: dividersi su questo non ha senso, e soprattutto ci impedirebbe di portare a termine il progetto.
Secondo me per rilanciare l’Italia bisogna crederci. E bisogna credere nel modello costruito, che è il modello chiave dell’Expo. Il nostro modello è: persona, società civile, economica, mondo relazionale. E Stato come somma di questo. Ma molti non ci credono, o dicono di non crederci. L’Italia si rilancia solo se si crede in questa tradizione che è anche la chiave per aprirsi agli altri. Se si ha una coscienza di quel che c’è qua, allora si può attrarre da fuori.
Ora, il tema dell’Expo è l’alimentazione: quindi questo soggetto, che è fatto di persona, realtà sociale ed economica, d’impresa ed ente pubblico, deve essere in grado di aprire il dialogo su questo argomento, attraendo la gente che ha lo stesso interesse. Questo è il modo per vincere la scommessa. Se non c’è questo, avremo cose raffazzonate e non avremo nessuno, neanche i nostri connazionali. La questione fondamentale oggi è la presa di conoscenza di questa forza culturale che è multipartisan, multiprofessionale, multisoggetto; una cosa simile funziona se ci sono le Università, le realtà sociali, il turismo.
Da questo punto di vista, il comitato organizzatore deve essere capace di operare come quando bisogna ottenere l’accreditamento, ed è quindi necessario che ci sia un alto livello di qualità. Dovranno esserci, ad esempio, 500 operatori turistici che fanno la loro offerta, e non un solo operatore in un regime di monopolio. Ci dovranno essere molte proposte culturali create nei vari paesi.
Concludo dicendo che sono un grande ammiratore dell’illuminismo lombardo, perché, invece di tagliare le testa, ha preso i lumi francesi insieme a tantissima gente diversa: socialisti ante litteram, liberali ante litteram, cattolici. Li ha messi insieme e ha creato una realtà pluralista. Questo illuminismo lombardo è nato in luoghi come i caffé, punti in cui si è cominciato a dialogare. È importante che nell’Expo ci siano punti del genere, dove si dialoga e si comincia a raccontare. Secondo me l’illuminismo del 2000 potrebbe essere utile anche per l’Expo.