Una delle cose più belle di Milano sono certi cortili. I cortili delle case d’epoca, a Porta Vittoria o al Sempione. Con quei muri abituati alle ombre di lunghi inverni, in cui il sole non arriva a penetrare in fondo agli angoli; e dove, schive, si inerpicano le viti del Canada e le edere.
Con quei silenzi – qui il traffico della strada arriva attutito – in cui, volendo, uno che s’affacci a queste finestre potrebbe anche fermarsi a pensare. Con quei rumori familiari che si ripetono uguali, ciascuno alla sua ora del giorno. La scopa di saggina della portinaia che raspa il cemento, al mattino; e i bambini del primo piano che si svegliano e si vestono, incalzati dalla madre che grida: sbrigatevi, come a un piccolo esercito refrattario alla battaglia. Lo spezzarsi delle bottiglie che si frantumano nella campana di vetro, in un fragore aspro di cocci.
E, solo certe notti, prima dell’alba, il rollio dei bidoni condotti davanti al portone; spinti da una sagoma scura d’uomo, uno straniero che passa solo per quel suo carico notturno, e che, in faccia, non hai visto mai.
Mi piace dei cortili l’essere il rovescio delle facciate delle nostre compite case borghesi. Qui, sul retro, sventola la biancheria stesa; e le lenzuola, se c’è un po’ di vento, si gonfiano, anche fra queste mura strette, come vele. Mi piacciono gli oggetti lasciati sui balconi, non più utili ma nemmeno ancora abbandonati, come in un limbo. Il vecchio monopattino che resta lì, mentre il bambino è cresciuto.
Sono belli, certi cortili di case lungamente vissute, quando scende la notte, e ad una ad una si accendono le sagome rettangolari delle finestre, nel buio. Ciascuna custodendo, dietro tende leggere, intimità di cucine dove sfrigola il sugo sui fornelli; o azzurrini bagliori di schermi di pc naviganti chissà dove. La luce rossastra di una finestra solitaria, al penultimo piano, per anni mi ha avvinto. Poi l’inquilino deve essere cambiato. Ora quelle persiane sono sempre chiuse. E come sarà la mia casa vista dall’altra parte del cortile? Le nostre ombre dietro le finestre che si muovono, parlano, litigano – finché tutto si spegne, e solo una sagoma gentile di gatto resta affacciata a contemplare la notte.
Mi piacciono dei cortili di Milano i gelsomini, comprati dalle inquiline nell’entusiasmo della primavera, che poi fra queste nostre mura umide stentano, e sopravvivono, pallidi ma ostinati, abbarbicati ai loro sostegni.
E, certi pomeriggi, quelle note di chitarra: non perfette ma dolci, come una corrente d’acqua. Mio figlio canta ancora le canzoni di Bob Dylan che piacevano a me, e la musica esonda gentile in queste geometriche viscere metropolitane; mentre l’edera sui muri, inavvertita, cresce. E il gelsomino pallido tiene duro, come aspettando quel mattino, verso la metà di giugno, in cui un raggio di sole finalmente riuscirà a toccarlo, nel suo angolo.
Per qualche giorno soltanto, appena oltre il solstizio d’estate, quando già il cortile si richiude, severo, a tanta luce; e sul balcone là in basso il monopattino riprende dolcemente ad arrugginire.