Si ritiene comunemente che le cose siano inanimate. È una certezza di cui, quando ero bambina, i grandi non sono riusciti a convincermi del tutto. Naturalmente, non oserei mai sostenere razionalmente il contrario. Però continuo, tacitamente, a covare in proposito dei dubbi.

Prendete per esempio questo tram dietro cui mi trovo in auto, stasera, in via Porpora, alla periferia di Milano. Un vecchio 33 giallo che se ne va al capolinea. Nel buio della notte, dai finestrini la luce giallognola inquadra le sagome dei rari viaggiatori. Sferraglia pigro. Indolente, direi.



Al verde parte con un momento di ritardo, come un carro tirato da muli stanchi; e, alle fermate, spalanca le portiere con uno sbuffo forte di stantuffi meccanici, che pare lo sfinimento di un operaio, a fine turno. Il 33 – lo spio, affiancata al semaforo – è vuoto. Due extracomunitari e una giovane donna, soltanto, a bordo. Immagino sui sedili giornali disfatti, per terra carte di cicche e biglietti usati. Il tram naviga sui familiari binari, anelando la pace del deposito dove dorme con i suoi compagni: uno accanto all’altro, commilitoni in una camerata.



Ora, so bene che un tram non può aver l’anima. Ma, se l’avesse, quanto potrebbe raccontare. Questo 33 che gira per Milano da quarant’anni. Che si ricorda le sassaiole degli anni Settanta, e quelle folle di ragazzi con le bandiere rosse che gli tumultuavano attorno, nel fumo dei lacrimogeni. Che fine avranno fatto quei giovani impavidi guerrieri metropolitani? Talvolta il 33 ne riconosce uno, i capelli brizzolati, alla guida di un Suv che lo supera con la potenza dei suoi 3.000 cavalli. Il vecchio tram rimane indietro, lento, pensoso.

E tutta quella gente che, per anni e anni, è salita ogni mattina alla stessa fermata, e ogni sera, alla stessa ora, ritornava? Li conosceva, il 33 – che allora era dipinto di verde -, ad uno ad uno. Le impiegate del Pirelli. E quel signore col cane lupo, vecchio lui e vecchio il cane. Un giorno è salito senza il cane. Una settimana dopo non c’era più nemmeno lui.



E le ragazze? Le ragazze in minigonna degli anni Settanta, fiere, provocatorie come Eve, come fossero le prime donne al mondo. Gli sguardi che si alzavano in vettura, quando salivano oscillando sulle belle gambe, altere.

 

E mattine di gelo, quando il tranviere scendeva a manovrare a mano con una leva gli scambi ghiacciati. Notti afose d’agosto, nell’aria immobile solo lo stridore d’acciaio delle ruote, alla fermata. E la sera, tardi, all’ultima corsa, altre facce, livide di stanchezza o di guai; facce truccate, labbra dipinte dentro la notte da guadagnare.

 

E i bambini? Quanti ne ha portati a scuola, ogni autunno più grandi. Poi un giorno non si vedevano più, finita la scuola, cambiata la strada. Nuovi bambini, a settembre, lo zaino in spalla, alla fermata.

 

Il 33 sparisce verso Lambrate. Quel rumore che fanno i tram di Milano, quel fischio basso e lamentoso con cui se ne vanno, sembra nella notte un sospiro. Fiato metallico, a noi indecifrabile; ma tanto forti e dolenti sono le storie degli uomini, che forse anche un vecchio tram ne resta impregnato.