Il destino del Parco Agricolo Sud Milano paradossalmente è quello di unire su una generica adesione alla sua esistenza e di dividere sul problema centrale della sua vera natura. In altre parole: tutti concordano sulla straordinaria importanza della salvaguardia di un’area verde protetta che si incunea fin quasi nel cuore della metropoli, ma ognuno, poi, la concepisce a modo proprio.



Il Parco Sud ha alle spalle una storia di contrasti lunga e anomala per la partecipazione di tutti coloro che hanno concorso a formarla, a partire da una pletora di comitati e gruppi spontanei che hanno avuto, se non altro, il merito di sollevare la questione. La legge regionale istitutiva del Parco sta per compiere 20 anni, ma ancora, come appare chiaro dal dibattito improvvisamente ripreso, non vi è unanimità di interpretazioni.



Già la denominazione induce a una riflessione: il Parco è “agricolo”, dunque si definisce partendo dalla presenza chiave dell’agricoltura. Nella caotica crescita urbanistica del territorio milanese, nel tempo si sono spontaneamente delineati alcuni assi di sviluppo, storicamente il primo a nord, poi ad est verso l’Adda e, più di recente, ad ovest, verso il Ticino. L’ultima parte ad essere coinvolta nella greve colata di cemento che ha coperto il Milanese sotto la crescente pressione insediativa, è stata quella a sud. Qui il terreno è stato protetto da fattori concomitanti: una minore attrattività, legata alla carenza di collegamenti, e una maggiore resistenza opposta all’urbanizzazione da parte di un’agricoltura fra le più vitali dell’intero territorio nazionale. Ma nelle aree agricole del sud Milano alcuni immobiliaristi, nel frattempo, si erano “portati avanti”, acquistato grandi estensioni di terreno con la prospettiva di edificarle.



Quando la collettività si è resa conto della particolarità di questo spicchio agricolo che collega la fertile pianura a sud della metropoli con il cuore stesso della città, si è cercato di interpretare in senso positivo la peculiarità storica dell’area agricola, letteralmente inventando e cercando di riempire di contenuti il concetto, unico in Italia, di “parco agricolo” che non è né il giardino pubblico dell’Ottocento, né un area naturalistica esistente da salvaguardare o da rinaturalizzare. Al contrario, l’agricoltura giustifica la creazione di un’area urbanisticamente protetta in cui svilupparsi.

 

Tutti d’accordo? Nemmeno per sogno, perché a questo punto si scontrano due visioni: la prima vuole conservare un’agricoltura immobile, uguale a quella del passato, la seconda, invece, la ritiene un’attività economica che deve evolversi per contendere la terra agli altri settori economicamente più forti.

 

Ma si confrontano anche due logiche contrapposte: la prima si basa sulla rigida centralizzazione di ogni forma di potere, in pratica consiste nel proibire tutto, tranne ciò che viene di volta in volta autorizzato. La seconda, al contrario, è quella della sussidiarietà che lascia ai singoli, privati e comunità locali, piena libertà di decidere, tranne in quei casi in cui sia in gioco un superiore interesse comune e dice che si può coltivare in modo ordinario escludendo solo ciò che è espressamente proibito.

La differenza è forte e il Parco Sud ha visto l’alternarsi delle due posizioni, che non sono solo teoriche. I problemi concreti non mancano e riguardano enormi interessi, come sempre in materia di urbanistica. La forte rigidità centralista apre la strada al massimo della discrezionalità nelle decisioni, anche quelle che fanno lievitare il valore di un terreno agricolo di decine di volte semplicemente includendolo in un’area urbanizzabile, o quelle che permettono di ampliare i volumi degli edifici. Un eccessivo senso di libertà può condurre, per contro, ad arbitrii diffusi a danno della collettività.

 

È qui che nascono i contrasti. Insomma, scava scava, anche nell’ambientalismo scopri che la dimensione etica deve essere quella che conta, anche se in apparenza tutti sono animati da buone intenzioni. 

 

 

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