«Sul Parco Sud c’è una lotta tra un atteggiamento ottuso e vincolistico – tutto deve restare così com’è – e un immobiliarismo che pecca anch’esso di cecità – cerchiamo di costruire di più. Queste sono due posizioni superate, non contemporanee, che sono speculari e si sorreggono a vicenda». Continua il dibattito sul Parco Agricolo Sud Milano. Dopo Gioia Gibelli e Dario Casati, interviene Stefano Boeri, architetto e urbanista.
Professor Boeri, perché è così difficile spiegare cos’è e cosa dev’essere il Parco Sud?
È un territorio con caratteristiche uniche nel suo genere. Non è un pezzo di natura, ma nemmeno un pezzo di città. È un paesaggio fortemente antropizzato, ma con una densità volumetrica bassissima, e con un grado di permeabilità per fortuna ancora molto esteso. È l’esito delle bonifiche realizzate ad arte nel periodo medievale, e di un’opera continua di colonizzazione del terreno. Ma anche della distruzione di ettari ed ettari di bosco, per fare spazio ad un’agricoltura che storicamente ha avuto diverse fasi.
E oggi a che punto ci troviamo?
Domina un’agricoltura estensiva, quasi monoculturale perché prevalentemente cerealicola: mais e riso. Poi qualche prato, pioppeti, e poco altro. È l’esito di una mentalità riduzionistica. Il Parco Sud polivalente, quello con diverse essenze e tradizioni, si è pian piano tradotto in un ambiente a scarsa biodiversità.
Quali sono le cause di questa involuzione?
Il Parco è stato gestito dai proprietari dei terreni come uno spazio sul quale incombevano forti aspettative di tipo edilizio. Questo spiega il ricorso alla monocultura cerealicola, che richiede meno forza lavoro, è sbrigativa e garantisce bassi costi di manutenzione. Così il vincolo ha rappresentato il vantaggio e insieme il limite del Parco. Il vantaggio perché se non si fosse intuita la straordinaria potenzialità di questa risorsa venti o trent’anni fa, oggi non l’avremmo più. E il limite, perché ha consentito il codificarsi della monocultura, divenuta quasi una mentalità che ha “congelato” il Parco. Ma proprio questo è il suo elemento di maggior debolezza.
Perché?
Perché il Parco Sud è ormai inteso come una specie di grande radura priva di vita e di qualsiasi attrattiva per i cittadini della metropoli. Lo si attraversa in auto con altre destinazioni, oppure in certi periodi dell’anno quando i paesaggi diventano interessanti e val la pena di visitare cascine, abbazie e borghi. Ma rimane estraneo, non è oggetto di una reale esperienza, come lo è la città. E dopotutto, i cittadini di Milano lo frequentano? No.
Ma allora qual è la strada per la rinascita del Parco?
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Sta in un’agricoltura diversa, che torni come un tempo ad essere un’agricoltura polifonica, a più voci. Rispettosa della biodiversità vegetale originaria, aperta alle altre coltivazioni tipiche della tradizione padana e lombarda, e varia anche dal punto di vista zootecnico. Che coltivi la natura, perché c’è la possibilità di utilizzare l’agricoltura come produzione non solo di beni alimentari, ma anche di paesaggio, laghi, boschi, colline. Facciamolo con i fondi della Comunità europea. E un’agricoltura che produca energia: boschi produttivi, quindi pioppeti per esempio, che già ci sono, ma da valorizzare ancor di più. L’idea del Metrobosco intorno a Milano è anche questo.
Lei si è speso a favore di una vasta azione di recupero delle cascine. Il progetto Cascine Expo 2015 va in questa direzione?
Sì, va nel senso di una maggiore funzionalità dell’agricoltura, ma non solo. Esiste anche una componente culturale che non può essere sottovalutata. Il sistema delle cascine e delle abbazie può diventare un luogo dove la grande fascia agricola del Parco scambia prodotti, beni, ma anche esperienze e memorie. Un’interfaccia tra città e territorio agricolo che Milano ha, ma che moltissime città non hanno più e che proprio per questo non deve andare dispersa.
L’agricoltura dunque come produzione di un valore che va oltre quello agricolo tradizionale.
È l’unica strada. L’agricoltura produce lavoro, produce servizi – pensi al tema degli orti urbani, ma anche alla formazione dei ragazzi sul tema della coltivazione e del rapporto con l’ambiente. Poi c’è l’idea del farmer market, in linea con quanto stanno facendo Coldiretti o Slow Food: in luoghi come le cascine i prodotti agricoli possono esser commercializzati, ristabilendo un nesso tra produzione locale e consumo locale di beni alimentari. Per non parlare del turismo. Come vede, stiamo parlando di un’agricoltura che ha mille prestazioni pur a partire da un’unica grande condizione di ruralità.
In che rapporto deve collocarsi il Parco Sud con l’espansione della città?
Nel rapporto previsto dal Pgt di Milano (Piano di governo del territorio, ndr). Il Parco non deve più concedere un metro quadro alla città perché non ve n’è alcun bisogno di tipo demografico, culturale, sociale, economico. La città ha ampi spazi su cui crescere ma al suo interno, perché è piena di spazi vuoti, inutilizzati. Finora è cresciuta mangiando ruralità, ma lo ha fatto perché la ruralità non aveva ragioni per difendersi. È stato facile rimproverarla di essere improduttiva.
Che cosa può dire del controverso progetto di Metrobosco? «Non intendiamo spegnere Metrobosco – ha detto il presidente della Provincia, Guido Podestà – ma integrarlo con un progetto più ampio». Teme qualcosa in particolare?
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Quando si dice così, è come quando si promuove qualcuno in un ruolo in cui non conta nulla. Ogni problema merita senz’altro una “prospettiva più ampia”, ma questa prospettiva qual è? Aspettiamo di saperlo. La cosa positiva di quel progetto è che noi avevamo studiato anche delle procedure di attivazione spontanea, dal basso. Molte aziende si erano dette favorevoli e avevano manifestato interesse.
Può spiegare?
Il progetto era anche l’occasione per sviluppare impresa sociale, fare imprenditoria. Un esempio: aziende che si ponevano come intermediarie per gestire il problema della compensazione ambientale, cioè la piantumazione di un numero di alberi sufficiente a compensare le emissioni di CO2 delle aziende che insistono sul territorio. Comuni disponibili a realizzare pezzi di forestazione, e agricoltori interessati ad incentivi per contribuirvi. Tutte forme che permettevano a Metrobosco di non essere calato dall’alto, ma di svilupparsi, in modo sussidiario, nel vivo della società.
Nelle altre direttrici di sviluppo – verso il Ticino e verso l’Adda – Milano, sia pure in modo controverso, si è attivata, ma il sud, con il Parco, rimane un’incognita. Quali sono i fattori che impediscono di vedere nel Parco Sud una risorsa strategica?
Non essersi attivata non è detto che sia un danno, perché nelle altre direttrici che lei ha citato lo ha fatto così male che il ritardo a volte è un bene. Sul Parco Sud c’è una lotta tra un atteggiamento ottuso e vincolistico – tutto deve restare così com’è – e un immobiliarismo che pecca anch’esso di cecità – cerchiamo di costruire di più. Queste sono due posizioni superate, non contemporanee, che sono speculari e si alimentano a vicenda. Per gli uni la campagna è una periferia di naturalità che dovrebbe restare com’è stata fino ad ora. Per gli altri è territorio residuale senza senso, e dunque spazio edificabile. Nessuno dei due ipotizza che quello spazio sia fruibile in modo diverso. Mentre una posizione intelligente, nuova, è quella che dà all’agricoltura un ruolo che cambia il rapporto tra natura e città. Ed è la posizione che dovrebbe passare oggi.