Si vede e si coglie in giro grande apprensione per Milano e per il suo futuro, per la sua perdita di antico ruolo di “capitale morale”, per lo stato difficile di vita che si può vedere sia nelle periferie che nel centro cittadino. Anche l’appuntamento per l’Expo 2015, dopo la scatto d’orgoglio per la designazione ai danni della turca Smirne, sembra dimenticato e anzi si sta disperdendo in un mare di polemiche.
E’ vero che non esistono società umane perfette e quindi Milano è molto imperfetta, sotto tutti i punti di vista. Ma ci si dovrebbe domandare, con una certa accortezza, che cosa sarebbe oggi l’Italia senza Milano. In termini numerici e di pil è presto detto: un paese con un dieci per cento in meno secco, non contando il suo hinterland e la valle dell’Adda, altrimenti le cifre raddoppierebbero. Ma ovviamente queste sono “quisquilie e pinzillacchere”, come direbbe Totò, perché qui si parla di “morale”, di “solidarietà” e di “vivibilità”.
C’è da notare un primo fatto: l’attacco alla Milano che non ha affatto “il cuore in mano”, l’attacco alla “Milano che non sa vivere” e ai “milanesi incapaci di relazioni umane” è ricorrente ed era già presente nell’immediato Dopoguerra. Vengono in mente due film: “Miracolo a Milano” di Vittorio De Sica che terminava con un finale surreale: delle scope trasformate in aerei volavano sopra la Madonnina per andare lontano da quella città di “affari e dané”. L’altro è di Michelangelo Antonioni: “Cronaca di un amore”, dove il regista riserva una splendida sequenza (la più lunga) sui Navigli, ma il protagonista alla fine abbandona la città, ritorna nella sua Ferrara per l’impossibilità di condurre persino una storia d’amore a Milano. Ci vorrà solo il milanese Luchino Visconti, in “Rocco e i suoi fratelli” a costruire una tragedia greca, dove nel dolore dell’integrazione, solo alla fine il terzo figlio di una madre disperata entrerà come operaio all’Alfa Romeo, timbrando la sua integrazione in una realtà indubbiamente difficile.
In campo letterario le cose per Milano non andarono meglio, se si pensa ai libri di Luciano Bianciardi e di riflesso anche quelli di Lucio Mastronardi, più dedicati alla realtà lombarda, che sarebbe gretta, efficiente, tropo rapida, quasi inumana e nelle intenzioni di Bianciardi da “dinamitare” con una bomba “confezionata” nelle sue Apuane.
Ma Milano ha resistito a quelle critiche severe e dal Dopoguerra è andata ugualmente avanti. Nonostante le sue crisi, ma soprattutto le sue profonde trasformazioni, tanti milanesi non se ne vanno dalla loro città, così come fece Cesare Beccaria, che rifiutò l’invito della grande Caterina di Russia per restare a Milano, a occuparsi di diritto e di economia nelle Scuole Palatine.
Il fatto è che Milano ha purtroppo il grande orgoglio di anticipare i tempi delle grandi svolte storiche, affrontando cambiamenti epocali, integrandosi con chi arriva a lavorare e poi assestandosi per garantirsi un buon livello di vita. Forse qualcuno è abbastanza smemorato e non vede quello che è accaduto in un, tutto sommato breve, periodo storico. Tra il 1971 e il 1994 il numero degli addetti dell’industria a Milano cala da 330mila unità a 140mila. Vale a dire, per ricordare ad alcuni smemorati, che quasi duecentomila milanesi non sono più operai perchè le fabbriche chiudono per via di una deindustrializzazione che sta nella storia economica, non in quella dell’Iperuranio.
Chi pensava, ancora all’inizio degli anni Novanta di vedere Milano come uno dei “vertici” del cosiddetto “triangolo industriale”, scambiava lucciole per lanterne. La caduta dell’occupazione manifatturiera è già molto evidente a Milano nel decennio 1971-1981, quando l’industria perde il 26,5 per cento degli occupati. Quello è il momento della grande svolta economica, sociale e di costume. In quello stesso periodo crescono gli impieghi nel settore dei servizi nel terziario. Se nel 1971 i ceti professionali rappresentano circa il sei per cento della popolazione attiva, nel 1991 salgono a 16. A metà degli anni Novanta si valuta che il settore dei servizi copra il 50 per cento degli occupati.
Milano sfida la modernità e diventa una città diversa, ma è talmente importante nell’economia nazionale che con la morfologia urbana di Milano cambia anche l’assetto dell’Italia Settentrionale, priva di quella rete di interdipendenze funzionali che avevano costituito la base dell’espansione manifatturiera. Di fatti con il suo cambiamento, Milano condiziona il Nord e trasforma quel vecchio “triangolo industriale” in una grande megalopoli padana, di cui è la naturale capitale. E’ a Milano e nel suo hinterland, soprattutto che non nasce solo il “made in Italy” che fa storcere il naso a tanti nostalgici della “fabbrica e della classe”, ma nasce quello che oggi gli economisti più attenti chiamano il “quarto capitalismo”, una serie di imprese agili, piccole e medie, che sanno affrontare, a testa alta, il mercato mondiale.
Sarà anche un’analisi troppo marxista pensare che è la struttura economica a condizionare, in ultima analisi, i modi di vivere, di pensare e gli stessi rapporti interpersonali. Ma sembra abbastanza giusto considerare che, di fronte a un simile cambiamento, ci saranno pure dei normali punti di assestamento. Nonostante questi cambiamenti, Milano resta sembra una grande città europea che è prima non solo nella “fabbrica” della ricchezza nazionale, ma anche della solidarietà reale. Basterebbe guardare ai dati della raccolta del “Banco alimentare” ogni anno, e alla presenza di attività caritatevoli laiche che risalgono all’Ottocento. In quest’ultimo periodo, rispetto alle altre città del Nord, Milano sta pure recuperando popolazione.
Certo, non è perfetta, non è incantevole e, al momento non funziona nemmeno bene. Ma si potrebbe dare a Milano anche il tempo di assestarsi dopo aver affrontato gli appuntamenti con la modernità? Oppure la pazienza è riservata solo a chi vive di rendite private o pubbliche?