Sono stato colpito dalle parole che il card. Tettamanzi ha detto nell’intervista uscita sul “Corriere” alcuni giorni fa. Mi è parso che l’Arcivescovo di Milano spingesse la discussione sulla città – una discussione sicuramente più vivace rispetto a qualche anno fa, e questa è comunque una notizia positiva – un passo oltre certe ristrettezze di sguardo, che dominano spesso in questi casi: polemiche su particolari in fondo secondari, tecnicismi da burocrati, disegni astratti, e sempre, immancabilmente, gli “esperti” a dire la loro, come se uno sguardo umano sul destino della città fosse un problema da specialisti.
Le parole di Tettamanzi, misurate e lucide, tratteggiano una città fatta di pezzi lontani tra loro, senza una classe (in altri tempi era stata la borghesia a farsene carico) capace di prendersi cura dell’intera città. Una città che nel frattempo è cambiata radicalmente, in cui parole come “centro”, “periferia”, “hinterland” hanno cambiato significato. Una città, soprattutto, nella quale convivono novantotto etnie diverse (un record, a quanto dicono).
Quest’idea della lontananza domina l’immagine attuale della città. Non si tratta di un problema semplicemente amministrativo: si tratta di un problema antropologico. Gli amministratori possono fare molto, anche se spesso proprio gli amministratori sembrano essere i primi a non accorgersi della situazione. Un piano urbanistico, una riforma dei trasporti, la progettazione di nuove infrastrutture dipendono dall’idea di città che gli amministratori si sono fatta. Ma se spesso questa idea appare confusa (lo si vede dall’incertezza che domina proprio nei casi appena citati) è segno che il problema sta più a monte. Un amministratore sa dove deve andare quando percepisce una città che, a sua volta, sa dove vuole andare.
Questo, come vado dicendo da anni, è il malessere di una città, per altri aspetti magnifica, come Milano. Milano fa fatica a conoscersi, a conoscere il proprio presente. La mancanza di una classe capace di farsi carico dell’insieme, la mancanza di uomini, di facce, di esperienze nelle quali l’intera città si può riconoscere: questo è il suo tallone d’Achille.
Ascoltando l’amico Giovanni Oggioni, eccellente urbanista, mentre parlava a un gruppo di studenti, mi colpiva la sua insistenza su un concetto semplice: la necessità che tutti i punti della città siano raggiungibili in diversi modi, che il monocentrismo (cui si ispira ancora, ad esempio, la rete dei trasporti urbani) lasci il posto a una pluralità di “centri” cittadini, così che i cuori pulsanti della città siano molti e nessun punto (via, quartiere ecc.) sia distante da uno o più centri.
Questa idea del ravvicinamento mi ha molto colpito. Dicevo tra me: non si tratta solo di un principio urbanistico, ma di un principio di ordine generale. I singoli cittadini sono, in fondo, anche loro come quartieri. C’è chi è in contatto con tutta la città e la sa “usare” e chi ha difficoltà, è solo, spaesato, o perché anziano, o perché disoccupato, o perché straniero, e così via. Magari queste due tipologie così diverse vivono nello stesso palazzo, ai due lati dello stesso pianerottolo, e tutte le mattine si salutano e si augurano buona giornata. Ma senza nessun incontro.
Io non so offrire nessuna soluzione, ovviamente, a questo problema. C’è però un aspetto culturale della questione sul quale val la pena soffermarsi. Noi siamo tutti figli di una mentalità che ha pensato di poter supportare lo sviluppo della società con offerte sempre più specializzate, di settore. Su questo modello sono sorte iniziative pubbliche, locali per divertirsi, ristoranti, rassegne culturali, e così via. Persino i curricula e i colloqui di lavoro sono improntati a questo principio.
Ma il risultato di tutto questo è una città in cui i percorsi dei singoli intercettano sempre meno quelli degli altri. L’esempio che faccio sempre è quello della Giornata della Colletta Alimentare, che si celebra ogni novembre. In quell’occasione la città si accorge di bisogni che per il resto dell’anno non vede, non per cattiveria o egoismo, ma perché non li incontra.
Perciò, senza pretesa di risolvere problemi così grossi, il mio invito a tutti (a me stesso, a chi vive nel mio quartiere, ai miei amici, agli amministratori, agli intellettuali ecc.) è questo: salvaguardiamo quei luoghi (che sono sempre meno numerosi) nei quali i percorsi si incrociano, determinando – anche visivamente – una “macchia” di diversità nell’uniformità delle nostre solitudini. La progressiva scomparsa dei cinema dal centro cittadino è, per esempio, un cattivo segno, perché dove c’è un cinema c’è mescolanza sociale, e la mescolanza – anche semplice, come in un cinema, o in un bar-tabacchi – è il primo presidio, molto più efficace di mille provvedimenti “dall’alto”, contro il degrado della città.