Caro direttore,
L’appello del cardinale di Milano ha suscitato vasti echi, ma contemporaneamente ha confermato un’elevata incomunicabilità. Un’incomunicabilità che è ormai “storica”, per molti versi. Che cosa voglio dire? Intendo questo: il punto non è rispondere al cardinale se Milano abbia o meno una forza residua purchessia di etica pubblica e privata, nella vita delle sue istituzioni come nella pluralità di attività messe in campo dal privato sociale di ogni ispirazione, forma e risorse. Il punto, come al solito quando si parla di cristianesimo e di ruolo della Chiesa, è di fare una cosa che da un paio di secoli non siamo più abituati a fare, soprattutto quando si hanno titoli di studio elevati e si esercitano professioni di spicco: cioè prenderlo alla lettera. Dire testualmente se si reputi fondata oppure no l’analisi del pastore secondo il quale Milano si è allontanata da tempo e resta oggi troppo lontana da valori e iniziative ispirate non a un’etica pubblica qualunque, ma proprio a quella cristiana. Non ad altre.
Su questo tema, ho letto l’intervento di Giorgio Vittadini e naturalmente non me ne sono stupito, perché ai miei occhi è ovvio che egli colga al volo nel loro senso vero le parole del cardinale. Ho letto la risposta del sindaco Moratti, e naturalmente ho giustificato il fatto che al primo cittadino spetti in qualche modo dare una risposta rassicurante, collettiva e istituzionale, al di là di ogni letterale adesione allo spirito e alla sfida concreta del Cristo e del suo amore per l’uomo. Ma quando poi estendiamo lo sguardo ad altre risposte venute al Cardinal Tettamanzi, allora mi dico che no, non ci siamo proprio. Per farmi intendere, uso apposta l’intervento di colui al quale, pure, sua eminenza aveva esplicitamente dischiuso la porta con un grande ed esplicito riconoscimento: parlo di Marco Vitale.
Nel lungo e ispirato articolo di Vitale, ho ritrovato l’afflato di chi considera acquisito che la Milano morale da riscoprire sia naturalmente quella illuminista dei fratelli Verri. E figuratevi se posso avere qualcosa io in contrasto, cresciuto come sono a bozze compilate e corrette di Giovanni Spadolini su tutti i più sacri temi della storia patria milanese, dall’illuminismo appunto all’epopea del risorgimento. Epperò come si fa a negarlo, che l’eclisse della Milano pubblica negli ultimi decenni è vissuta e si è consolidata proprio dell’esangue scomparsa di figure capaci di incarnare quella tradizione? Chi la rappresenterebbe, oggi? Umberto Veronesi, medico e benefattore di vaglia ma cosmopolita scient-eticista? Quali banchieri schiettamente milanesi, sarebbero oggi il simbolo di un “fare finanza” incentrata sull’uomo? Gli economisti anglo-wasp della Bocconi? Le archi-star che edificano nel mondo opere e progetti nessuno dei quali si lega intimamente a un’idea “nostra” dell’uomo, e della sua necessità di condivisione?
Potrei continuare a lungo nell’elenco, ma ci siamo capiti. Il punto è che all’intellettualità milanese, che resta di primo livello nelle sue espressioni accademiche e professionali, come al comunque ricchissimo mondo dell’impresa e del commercio, viene facile rispondere al cardinale parlando in generale di eticismo più che di etica, e di meticciato multiculturale contro ogni eccesso leghista. Ma tutto ciò si nutre appunto di un relativismo condiviso. Quello che il pastore della Chiesa di Milano parli appunto in nome di un’etica qualunque, ridotta a legalità solidale contro legalità indifferente dell’uomo in quanto ossessionata dalla sicurezza.
Mi piace di pensare che il pastore di Milano, sempre così prudente, abbia messo da parte la tradizionale circospezione per vedere cosa sarebbe accaduto. Un appello quasi per “snidare” l’assenza del cristianesimo. Prima della miglior edificazione delle due città agostiniane, quella laica e quella di Dio, occorre ribadire che cosa per l’uomo con la “u” minuscola abbia comportato quello con la “U” maiuscola. Forse in questo modo si potrebbero scorticare ancora più a fondo le coscienze.
Oscar Giannino