Si aprono oggi gli Stati generali dell’Expo. Milano è chiamata a spiegare – innanzitutto a se stessa – cosa vorrà farne di questa grande opportunità, che a buon diritto viene considerata un’occasione storica di sviluppo per la città e per il paese. Ma è, l’Expo, ancor più l’occasione buona per Milano di interrogare se stessa. Non è lontano l’ultimo appello del cardinale Tettamanzi, che ha ammonito Milano mettendola in guardia dal rischio di ritrovarsi ricca, ma smarrita e senza’anima. L’appello ha suscitato un ampio dibattito. Nel frattempo, dopo infinite difficoltà, Expo 2015 Spa è riuscita a darsi una governance. È solo l’inizio, ma una cosa è chiara: l’identità di Milano passa per l’Expo. Ilsussidiario.net ne ha parlato con Giulio Sapelli.
Professore, quando Milano si è aggiudicata l’Expo è stato un trionfo, al quale è subentrata però una lunga fase di immobilismo.
Bisogna fare un passo indietro. Andiamo a leggere i documenti che risalgono alla battaglia di Milano contro Smirne per aggiudicarsi l’Esposizione. È significativo che a votare per noi siano stati soprattutto paesi in via di sviluppo e non paesi ricchi.
Cosa le suggerisce questo fatto?
Che l’Expo potrebbe essere una grande occasione per l’Italia, perché la posta in gioco è la sua collocazione nel Mediterraneo. Però se andiamo a vedere i contenuti programmatici della candidatura, si può vedere che sono molto poveri. Non contengono forti proposte. Questo non vuol dire che Milano non possa fare la sua parte.
A quali contenuti si riferisce?
I grandi temi dell’Expo sono la nutrizione, la catena alimentare, il sud del mondo. Su questo l’Italia ha un passato storico straordinario, un patrimonio alimentare tra i più ricchi al mondo. Ma è un patrimonio che non abbiamo valorizzato abbastanza. A questa relativa “povertà” culturale della proposta, che però non ci ha impedito di vincere, è corrisposta poi una paralisi della politica.
Sì, la governance della società alla quale fa capo l’organizzazione ha subito, diciamo così, un’impasse.
Sono personalmente giunto alla conclusione che la nomina degli organismi che devono governare eventi come l’Expo debba essere sottratta alla politica. E data a magistrature indipendenti, come le authority.
È un giudizio ben poco fiducioso verso la politica.
Non si è dimostrata in grado di rappresentare i veri interessi. Milano è cambiata e sta cambiando. È in una fase di transizione, la sua nuova identità è in divenire. Esercita uno scarsissimo peso sugli interessi economico-produttivi, che si sono in larga misura spostati fuori da Milano, salvo le banche e l’alta finanza. La creazione della Camera di Commercio e della provincia di Monza e Brianza ha tagliato fuori Milano dalla rappresentanza delle più importanti sedi di pmi. È una città che non ha più un baricentro economico. In questo non ci sarebbe nulla di male, se fosse al tempo stesso un centro moderno di grandi servizi avanzati.
Milano non è oggi è un enorme polo di servizi?
Sì, ma non basta. La profezia di Albertini si è avverata: la trasformazione della politica in gestione di condominio. Il Comune, come autonomia locale, non ha ancora trovato la sua nuova missione. Mentre le autonomie funzionali si sono precisate – parlo della Camera di Commercio, delle associazioni imprenditoriali – il ruolo della politica rimane da definire: cosa fa la politica a Milano? Mentre la Regione ha la sua mission definita, altrettanto non si può dire della città. L’Expo, finora, è stata la prima vittima. Sarebbe già molto non usare parole nobili come “governance” per camuffare una spartizione di poltrone. Non si può negare che abbiamo assistito ad un balletto estenuante.
Cosa ha sbagliato la politica?
Si possono fare grandi discorsi, ma alla fine si arriva sempre lì: le nomine. La politica oggi deve fare un passo indietro sul problema delle nomine. Propongo che si facciano degli organismi tecnici sottratti al voto democratico. Vedrei bene un sistema di designazione come avveniva nell’antica Atene, in cui le personalità venivano sorteggiate all’interno di un gruppo di ottimati.
Milano è perennemente al centro di un dibattito sull’identità di se stessa. L’impressione è che a prevalere sia una ricerca perenne di alchimie tra vecchio e nuovo, tra profit e impegno sociale, tra industria e comunicazione, tra passato e presente…
Milano deve ritrovare la sua vocazione. Su questo Doninelli ha scritto cose illuminanti. Anziché vagheggiare i favolosi anni ’60, occorre capire di nuovo com’è fatta questa città. Che ha perso una sua vecchia, storica autonomia e deve, con modestia e umiltà, riconquistarne una nuova. Milano ha le carte in regola per diventare una piccola Londra, una città di servizi avanzati e competitivi. Ma con l’aggiunta di riscoprire la sua vecchia tradizione dell’artigianato, della piccola e media impresa e del commercio di alta qualità. Se Milano abbandona questa tradizione, muore.
Mettiamo per un attimo da parte la retorica delle opportunità. Milano deve temere qualcosa dall’Expo?
L’unica cosa che deve realmente temere è quello che abbiamo visto a Siviglia e a Saragozza, ma non a Lisbona, per esempio. Deve temere investimenti immobiliari non commisurati a ciò che verrà dopo. Non può permettersi di avere grattacieli nel deserto, scheletri di lusso che ci guardano dai loro occhi vuoti. Trovo che dal punto di vista urbanistico Milano, a differenza di Roma, abbia fatto la scelta giusta.
Quale sarebbe?
Mentre Rutelli e Veltroni hanno scelto di non utilizzare gli spazi vuoti della città, ma di favorire la creazione di newtown che hanno fatto andare la rendita fondiaria alle stelle, per la gioia dei grandi costruttori, Milano, al contrario, ha utilizzato le sue aree dismesse, cercando di riempirle con intelligenza. È un esempio-modello di come si può riurbanizzare una città. L’Expo è la grande occasione perché la rendita immobiliare di queste operazioni torni a vantaggio della cittadinanza.
Sta dicendo che occorre la lungimiranza di guardare oltre l’Expo, per farla bene?
Sì. Occorre guardare lontano, in modo che finita l’Expo rimanga non solo l’asset di stock di capitale fisso, ma anche l’asset immateriale. Abbiamo davanti l’occasione per entrare in contatto con nuove culture, produrre reti. La sfida successiva sarà quella di mantenere e incrementare questo network: le università devono aumentare le loro relazioni internazionali, le imprese devono acquisire nuovi mercati.
L’Expo è anche l’occasione per la città di «ritrovare la propria anima», come l’ha spronata a fare il cardinale Tettamanzi?
Me lo auguro. Ma non sarà facile, perché questa città non ha più tre cose: le grandi famiglie borghesi, la classe operaia e le sue organizzazioni, alle quali la cultura riformista milanese deve molto; e gli intellettuali.
Milano senza intellettuali? Non dirà sul serio.
(Ride). Gli intellettuali si misurano dai libri che scrivono. È sorpreso? L’intellettuale è il suo libro, è chi scopre, arricchisce e trasmette una sapere e con esso un valore; è chi lavora per la gloria, non per la fama o per andare sulle pagine dei giornali. Più che intellettuali, si vedono in giro tanti proletari dello spirito. È una cosa diversa.
E la borghesia?
A Milano la grande borghesia non c’è più. C’è invece una nuova piccola borghesia che si arricchisce rapidamente. Ma la borghesia centenaria, quella dei Pirelli, dei Bassetti, dei Villa Pernice, è finita con loro. E non è una questione nostalgica, ma un fatto storico: negli altri paesi spariscono i vecchi alto borghesi e nascono nuovi grandi borghesi. Quando invece da noi spariscono i grandi, rimangono solo i piccoli.
Vede all’opera un’ideologia che rema contro lo sviluppo della città?
Non direi. Riconoscerlo vorrebbe dire attribuire alla politica dei tanti, troppi interessi “particulari” una dignità spropositata. Ci sono troppi interessi che vogliono affermare soltanto il loro angusto tornaconto, per il quale l’importante non è che vinca Milano, ma impedire a qualcun altro di vincere. Questo sì.
Cosa manca a Milano?
Persone che siano portatrici di una metafisica. Io chiamo così quello che invoca Tettamanzi: la capacità di trascendere l’immediato per avere una visone di più ampio respiro, senza lasciarsi soffocare dall’interesse. Sono comunque ottimista, moderatamente ottimista. L’arrivo di Meomartini alla guida di Assolombarda, per esempio, è un fatto positivo. Essendo un top manager di grande cultura e formazione internazionale, non è servo di nessuno e potrebbe avere quello che in pochi hanno, cioè una visione del domani. Ci sono tante forze che si possono mettere in campo. Sta alla politica fare un passo indietro, per dar loro spazio.