Per proseguire la nostra breve rassegna storica sull’aspetto «solidale» di Milano, abbiamo posto alcune domande al professor Alberto Cova, professore di storia economica e Preside della Facoltà di Economia dell’Università Cattolica di Milano.

Professor Cova, quali sono state, a grandi linee, le caratteristiche dello sviluppo economico lombardo a cavallo tra ottocento e novecento e quali i riflessi problematici sull’assetto sociale?



A partire dalla metà del XIX secolo in Lombardia, si irrobustiscono i segni di una trasformazione delle strutture produttive. La novità è data dalle prime esperienze di fabbrica secondo i modelli della classica “rivoluzione industriale”. Ai settori tradizionali del tessile che, per la Lombardia significa soprattutto la seta, si affiancano le prime industrie per la lavorazione del cotone e poi, dalla metà del secolo in poi, le industrie meccaniche il cui sviluppo è, in parte, trascinato dall’avvento della ferrovia. La crescita industriale si accentua potentemente verso la fine del secolo e negli anni del novecento sino alla guerra mondiale. Accanto al tessile e alla meccanica si aggiungono una buona crescita dell’industria chimica e poi dell’elettromeccanica trascinata dall’apparire di quella straordinaria novità costituita dall’impiego dell’energia elettrica non tanto o non soltanto per gli usi civili quanto per le attività di produzione e scambio.



La concentrazione produttiva è notevole e riguarda particolarmente Milano, Bergamo, Brescia, Como, ossia le province che già in età moderna si erano distinte per la presenza di un importante tessuto di attività manifatturiere essenzialmente legate alla terra: setificio, produzione lattiero-casearia, lino e un po’ di ferro.

Per effetto della trasformazione delle strutture economiche e della concentrazione produttiva appaiono i problemi tipici dell’industrializzazione: la totale dipendenza del lavoratore dall’impresa che tratta i dipendenti senza troppi riguardi per le “persone”, il lavoro femminile e minorile, il livello (basso) delle retribuzioni, le condizioni di lavoro in fabbrica; la crescente importanza della “conoscenza” e, quindi, dei livelli di scolarità agli effetti di migliorare la propria posizione nel lavoro ma anche di assumere iniziative proprie nei diversi settori dell’economia. Ma appaiono anche gli squilibri nella disponibilità di risorse umane e, più precisamente, una domanda di lavoro alla quale non sempre corrisponde, in sede locale, un’offerta adeguata. Di qui i primi movimenti migratori interni.



Di fronte alle emergenti sfide sociali come si è mosso il modo cattolico nel suo livello locale e nelle sue forme associative?

In un contesto come quello richiamato e che porta in Lombardia (ma anche in altre regioni d’Italia ugualmente interessate dalla trasformazione industriale) situazioni e problemi che in Europa e negli Stati Uniti sono noti ormai da decenni, si registrano le grandi esperienze dei cattolici nel campo economico e sociale prima, politico, poi.

Si guarda anche a ciò che sta capitando altrove e specialmente nei paesi come la Francia, il Belgio, la Germania con i quali esistono da sempre relazioni di qualche consistenza e affinità culturali non marginali. Ma esistono anche iniziative straordinariamente importanti, specifiche della realtà italiana e Lombarda, in diversi campi del sociale e dell’economico che costituiscono una risposta ai problemi nuovi emergenti da una società attraversata da cambiamenti profondissimi.

Si tratta di iniziative che riguardano la scolarizzazione di base e, più in generale, l’educazione dei giovani in un’epoca che rischia di sconvolgere i valori della tradizione; si tratta di impegnarsi a fondo per la formazione professionale per formare conoscenze e competente idonee al lavoro in fabbrica; si tratta di insegnare le buone tecniche agricole in un settore, come quello primario, che, anche nella Lombardia che si sta industrializzando, continua ad occupare un posto importante in molte province; si tratta di considerare i giovani e soprattutto le giovani che passano dai paesi alla città o ai luoghi nei quali sono in attività le nuove imprese industriali e che devono essere messe in condizioni di inserirsi bene nelle nuove realtà. Senza dimenticare l’assistenza agli emigrati fuori d’Italia la cui consistenza è grande. E senza dimenticare l’azione diretta a sostegno delle classi popolari e specialmente dei lavoratori effettuata attraverso lo strumento delle cooperative di lavoro, di consumo di credito e anche l’apporto dei cattolici alla prime esperienze di costituzione del sindacato a partire dalle leghe del lavoro sin dai primissimi anni del Novecento e in settori di grande rilevanza economica come il tessile e il meccanico.

Tutto questo si fa con il contributo di sacerdoti e laici e, per la Lombardia, la funzione del clero rimanda alla grande riforma di san Carlo Borromeo che ha voluto un clero profondissimamente integrato con la realtà locale e agente diretto o ispiratore di iniziative che servono alla comunità della quali è pastore e guida.

Potrebbe farci qualche nome per esempio?

I nomi sono noti e vanno dai grandi Vescovi come Ferrari, Scalabrini, Bonomelli a Piamarta, Orione, Guanella, Francesca Cabrini, Bartolomea Capitanio e Vincenza Gerosa e a mille altri. E ai grandi laici per ricordare i quali basterà citare Giuseppe Toniolo, Giuseppe Tovini, Stanislao Medolago Albani, Filippo Meda.

Tutto questo si è fatto perché alla fine dell’Ottocento, come tutti sanno, l’immortale enciclica di Leone XIII la Rerun Novarum ha trovato in Lombardia un terreno fertilissimo che ha consentito la fioritura di una montagna di opere che non possono essere ignorate se non si vuol dare della storia dell’Italia contemporanea una falsa rappresentazione, com’e si è tentato di fare.

Come l’autorità della Chiesa ha guardato a questi eventi e come è intervenuta a livello pastorale?

Il cardinale Ferrari come vescovo della Chiesa di sant’Ambrogio ha vissuto la fase iniziale e forse più intensa della trasformazione. Ha guidato la diocesi, come si sa, dalla metà degli anni novanta dell’ottocento sino agli anni del passaggio dalla guerra alla pace dopo quello che i contemporanei chiamavano la “guerra europea”. Come tale ha sostenuto tutte le iniziative assunte nel sociale; ha appoggiato con forza il progetto di Padre Gemelli per la fondazione dell’Università Cattolica; ha promosso direttamente le opere di assistenza e sostegno al lavoro dei giovani.

Come si è detto, i fenomeni migratori degli anni tra l’otto e il novecento non avevano i caratteri degli anni sessanta e meno che mai quelli di adesso. Gli spostamenti riguardavano sostanzialmente gente della campagna che si trasferiva là dove le nuove industrie chiedevano mano d’opera. Si trattava di gente che non presentava grandi problemi di integrazione perché i loro comportamenti derivavano da valori condivisi, sul fondamento della stessa fede religiosa, con una sostanziale unità di lingua non intaccata dai dialetti pure importanti. Sicché tutte le iniziative delle quali si è parlato e che Andrea Ferrari sosteneva favorivano l’integrazione fra gli originari e gli “immigrati” e rafforzavano le relazioni fra vecchi e nuovi.

Ma soprattutto, il cardinal Ferrari ha sostenuto, mettendo i gioco la sua stessa posizione nei rapporto con la Santa Sede, il lavoro e le riflessioni che l’ambiente milanese conduceva negli anni precedenti la prima guerra mondiale nella prospettiva, ormai matura, del superamento della posizione di “astensione” della componente cattolica della realtà italiana dalla vita istituzionale e politica dell’Italia. Credo sia pacificamente acquisito che da Milano e dalla Lombardia siano partite le prime esperienze di “partecipazione” alla vita nazionale con i primi cattolici deputati. E negli anni della “guerra europea” di fronte alla grande e delicatissima questione della possibile neutralità, l’azione pastorale del cardinale si era espressa in un’azione pastorale diretta da un lato ad esortare i cattolici a compiere il loro dovere di cittadini nella prospettiva, però, di raggiungere poi “una pace decorosa e duratura” come ha fatto rilevare Giorgio Rumi.

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