Ha perfettamente ragione l’ex grande sindaco socialista Paolo Pillitteri, quando afferma che la “Milano da bere” è sempre meglio della “bella addormentata”, cioè della Milano di oggi. Ma Pillitteri, in questo modo, ironizza con grande classe, come al solito, per inquadrare sottotraccia un periodo di grande vitalità milanese, rispetto alla “foresta pietrificata” del dopo, quando la città si arrocca nel suo moralismo inconcludente e immobile, salvata solamente da qualche singola capacità di reazione e da un impianto sociale e produttivo che è molto difficile cancellare o addirittura sradicare, come qualcuno ha tentato di fare.
Tutto questo è emerso bene e in tutta la sua ampiezza, nel convegno organizzato lunedì 8 novembre al “Teatro Puccini” dalla “Fondazione Craxi” sulla Milano degli anni Ottanta. Non tanto e non solo per ribadire (ormai c’è una “processione” di personaggi che vanno a Canossa) la vitalità della Milano di Craxi, ma la vitalità creativa di un’intera Milano, che coinvolgeva forze politiche diverse, gruppi culturali di differente tendenza che arricchivano la città e la mettevano all’avanguardia nel processo di sviluppo sociale, politico ed economico del Paese.
Non va dimenticato che anche gli “eccessi”, se così si vuol dire, della “Milano da bere” arrivavano dopo la lunga stagione del Sessantotto in salsa italiana, cioè il più lungo del mondo, con cascami culturali e politici che hanno poi sconfinato nel terrorismo o in un disincanto nichilista. Dopo una simile “quaresima sociale”, senza senso alcun religioso, forse anche un poco di Carnevale era giustificato per rifiatare. Era giustificato anche qualche peccato e qualche errore.
Ma queste sono solo considerazioni marginali che facciamo, rispetto al punto centrale in cui è centrato il destino e la storia di Milano. Questa benedetta città ha conosciuto i migliori periodi di splendore quando ha rispettato la sua vocazione, cioè la sua identità indelebile. Che è chiarissima: quella di portare sempre elementi di innovazione, magari andandoli a pescare in tutto il mondo, per poi calarli nella sua realtà, rispettando scrupolosamente, quasi con accanimento, la sua tradizione.
Se negli attuali licei della Repubblica si avesse l’accortezza di spiegare l’illuminismo francese ed europeo e poi, con una lezione a parte, l’illuminismo lombardo, si comprenderebbe che il milanese Cesare Beccaria, grande giurista, ma ancora più grande economista secondo Joseph Schumpeter, era certamente un "illuminista", aperto alla modernità e ai salotti parigini che se lo contendevano, ma era talmente cattolico, autentico "figlio" di Sant’Ambrogio e di San Carlo Borromeo, che avrebbe potuto essere scambiato per un fondamentalista.
È solo un esempio tra i tanti. Milano è cementata tra tradizione e innovazione. Quando questo "motore" si disperde o viene spento e messo in discussione, Milano perde la testa e si suicida per molti anni. Per fare qualche esempio, accadde così ai tempi degli eretici patarini fin nell’anno 1000. Poi ai tempi della "Colonna Infame". E poi, a fine Ottocento, quando il sindaco chiama il generale Bava Beccaris sui Bastioni di Porta Venezia. E ancora quando si frantuma il movimento socialista riformista e quello cattolico lasciando il "via libera" ai fascisti.
O ancora, dopo il 25 aprile 1945, quando si dà spazio alla vendetta personale-politica con la macabra esposizione di piazzale Loreto. Infine nel 1992, quando la nuova Procura di Milano dimentica l’insegnamento equilibrato di un magistrato come Adolfo Beria d’Argentine, autentico erede della tradizione dei Verri e di Beccaria, per lasciare il posto ai nuovi interpreti del giustizialismo mediatico. È del resto comprensibile che, quando si confonde o si comprime l’identità di una persona o di un organismo sociale, il risultato sia una sorta di corto circuito incontrollabile. Milano non lo tollera e perde letteralmente la bussola.
Nel suo pragmatismo ideale, Milano è come un "cavallo di razza" che ha sempre bisogno di fare, di innovare, ma di non dimenticare mai il paddock da dove viene sfamato e allenato. Se si pensa agli anni Ottanta è giusto sottolineare la figura di Bettino Craxi, il rinnovatore che strappa la falce e il martello dalle bandiere socialiste e le ridona il simbolo classico dei riformisti turatiani, il garofano rosso, il colore dei comunardi parigini che erano, tutti blanquisti e prudhoniani. Di marxisti non c’era traccia.
Ma è anche giusto ricordare la concretezza della Dc di Giovanni Marcora, detto "Albertino", che è la migliore spalla di tradizione e innovazione del socialismo milanese. Cosi’ come è giusto ricordare che il Pci milanese degli anni Ottanta è di "destra", di tradizione amendoliana e ha costretto all’esilio romano anche un personaggio come Aldo Tortorella, irrimediabile ingraiano che aveva solo pasticciato nel comunismo meneghino. Riformista era anche la CGIL di Aldo Bonaccini e Lucio De Carlini, lontana anni luce dai sessantottardi della Flm e distante anni luce dall’attuale Fiom.
Riformista e costruttiva era anche l’area laica, uscita dall’Ufficio Studi della Banca Commerciale Italiana. E la stessa irruzione di un movimento ecclesiale come Comunione e Liberazione, che basava la sua azione sull’educazione della persona, stimolava positivamente un ambiente milanese in piena evoluzione, ma sempre con antiche radici.
Tutto questo permetteva a Milano un dibattito culturale di altissimo livello e una partecipazione politica che veniva, approssimativamente stimata, con ventimila milanesi che, ogni domenica, si ritrovavano a parlare dei problemi della loro città e poi, al pomeriggio, andavano a San Siro, a vedere la partita oppure le corse dei cavalli in Ippodromi che erano famosi in tutto il mondo.
Non è possibile che tutti i milanesi abbiano dimenticato quella realtà. Forse, in verità, la ricordano talmente bene che i maggiori responsabili dell’arroccamento moralistico in tutti i partiti, ma soprattutto nella sinistra, hanno fatto scomparire proprio la sinistra moralista, in questa città che è la capitale del riformismo italiano, la "repubblica o lo Stato di Milano" come la chiamava spregiosamente quel "gran democratico" di Francesco Crispi, l’accentratore statalista per eccellenza.
È possibile, anzi inevitabile, che Milano si riprenda. Perché il valore di una tradizione e lo spirito di innovazione è difficile da estirpare. Ma farà fatica, perché il vulnus che ha subito Milano è stato terribile. Ed è giusto ricordare i protagonisti dell’ultima stagione di vitalità milanese.
Non fu mai trovato il cadavere di Cesare Beccaria, scaraventato probabilmente nella Moiazza di Dergano, ma i simboli, come piazze, monumenti e ricordi tangibili di Beccaria, sono rimasti. È giusto che li abbia anche Craxi, al posto di avere una romba nella parte cristiana del cimitero di Hammameth. È inutile che la signora Letizia Moratti faccia la "gnorri".
Con un consiglio spassionato le suggeriamo di muoversi, perché i milanesi possono perdere la testa, ma non dimenticano mai e alla fine impongono i ricordi. L’attuale sindaco, per comprendere bene l’anima di Milano dovrebbe andare sotto la Torre Velasca ideata dall’architetto Ernesto Nathan Rogers. Se è vero che i grattacieli sono il rimpianto degli uomini moderni per le cattedrali gotiche che sfidavano il cielo, la Torre Velasca è la perfetta metafora di persone che guardano all’innovazione pensando alla loro tradizione. È la modernità che si lega al Medioevo. Chi non capisce questo, non capisce Milano.