«Milano non ha perso le sue eccellenze, ma la capacità di fare rete, la più grande qualità che abbia mai avuto dalla fine del secolo scorso». Parola di Carlo Tognoli, classe 1938, più volte ministro e sindaco del capoluogo lombardo per ben dieci anni a cavallo degli anni Settanta e Ottanta. «Il Politecnico, ad esempio, dopo vent’anni di vita era già strettamente collegato con la Società delle arti e dei mestieri e con la Società umanitaria – dice l’ex sindaco socialista a IlSussidiario.net -. Il cattolicesimo milanese, inoltre, svolgeva un ruolo importantissimo in questo senso e richiamava la città all’attenzione nei confronti dei ceti meno abbienti. C’era, in pratica, la consapevolezza diffusa della necessità di lavorare insieme, pur partendo da posizioni differenti. Questo non vuol dire che ci fosse un pensiero unico, ma una dialettica tesa a costruire e non a distruggere».
Secondo lei Milano è ancora oggi una città vitale, la capitale della creatività e il motore del cambiamento del Paese?
Ne sono convinto, ma per accorgersi di questo basta guardarsi intorno. Il settore della moda è solo un esempio. Anche se spesso viene criticato perché giudicato effimero, ha garantito in tutti questi anni la visibilità internazionale della città e ha dato lavoro a tantissime persone. Non solo, ha favorito l’innovazione tecnologica, lo studio di nuovi tessuti e di nuovi modi nuovi di produrre. Pensiamo poi al design: il Salone del mobile è un evento che coinvolge la città, l’hinterland la brianza… Guardiamo alle nostre università: il Politecnico, la Bocconi e la Cattolica sono di prim’ordine nel Paese e a livello europeo. Non saranno tra le primissime nel mondo, ma formano ancora dirigenti di prima qualità. Un’élite che, come dice il sociologo Bonomi, ha girato per il mondo e sa interloquire a livello internazionale. Anche Geminello Alvi ragionando su di loro, coglieva un aspetto interessante.
Quale?
L’elite milanese è di grande livello, ma non dimostra sufficiente amore per questa città: sparisce al venerdì sera e rientra al lunedì mattina. Tutto il contrario di ciò che facevano gli antenati di questi signori che, proprio nei giorni liberi dal lavoro quotidiano, si dedicavano alla riflessione e allo scambio di idee.
Ma come si recupera il desiderio di partecipare a un’opera comune?
A mio avviso, per coinvolgere occorre puntare in alto. Servono idee grandi, come in passato la città-metropolitana e la città-regione. Due progetti nati per guardare lontano a livello istituzionale e di infrastrutture. Le ferrovie nord, ad esempio, furono una delle prime metropolitane regionali d’europa..
A proposito di cose grandi, non sembra esserci miglior occasione di Expo 2015…
Certo, è l’evento più importante che una città può ospitare, inferiore solo all’Olimpiade. Milano può tornare “al centro del mondo”, ma per fare questo, al di là delle strutture e dei padiglioni, deve coinvolgere tutti i capoluoghi della regione, spingendosi anche al di là dei confini della Lombardia. Serve il contributo di città come Torino, Verona e persino Bologna…
In che senso?
Di certo non a livello organizzativo, queste città andrebbero però coinvolte, ascoltate, per far diventare l’Expo un fattore di crescita dell’intero Paese. Milano deve tornare ad attrarre il meglio che c’è e riscoprirsi una fucina di idee per il futuro. D’altronde, ha sempre saputo attrarre le intelligenze che venivano da fuori, offrendo loro la possibilità di assumere rapidamente una posizione di rilievo. Il fatto che una persona dell’intelligenza di Massimo Cacciari si stabilisca qui oggi fa ben sperare. “Milanesi non si nasce, ma si diventa”, si dice giustamente, per rendere realtà questo proverbio bisogna però risolvere il problema di una residenza dai costi proibitivi.
Se pensiamo al lavoro, fiore all’occhiello della città, com’è cambiato nel corso degli anni? Come è stato colmato il vuoto lasciato dalle grandi fabbriche?
Milano è cambiata molto e ha attraversato, come altre città, la transizione verso la società postindustriale. Le grandi fabbriche sono diminuite grazie all’introduzione dell’automazione, dell’elettronica e della telematica. Sono cresciute le attività del cosiddetto terziario avanzato, dei servizi alle imprese, dell’informazione, della ricerca e del sapere. Milano è rimasta così la città degli scambi, ma con un lavoro meno collettivo e sempre più individuale.
Si è persa la capacità di insegnare i mestieri e in qualche modo quel legame che spiegava prima tra università e mondo del lavoro?
A mio parere gli artigiani oggi ci sono ancora, non sono più tipografi, ma artigiani dell’informatica e della videografica. Detto questo, il tema rappresenta comune un tasto dolente, anche se a livello nazionale più che della città di Milano. È una problematica complessa, che non si risolve dall’alto con qualche facile ricetta. Serve un concorso di contributi e per la città può rappresentare l’ennesima sfida da vincere.
Riprendendo uno spunto che lanciava prima: se la classe dirigente si è abituata a lasciare la città nel fine settimana in molti oggi criticano Milano per il suo spegnersi al calar della sera. Lei cosa ne pensa?
È così. Quando ero sindaco era ancora peggio, a una cert’ora nessuno passeggiava più in Galleria. D’altra parte, c’era stata la strage di Piazza Fontana, la contestazione, il terrorismo. Chiusa quella stagione, Milano iniziò a riprendersi, ma lo scoppio di Tangentopoli frenò ogni nuovo slancio sul nascere.
Senza voler riaprire vecchie polemiche politiche, è indubbio che la città in quegli anni si è fermò e ancora oggi stiamo pagando quel ritardo, anche se ci sono segnali di una nuova vitalità che bisogna assolutamente favorire e stimolare.
In che modo?
Con la cultura, ad esempio. Sempre in quegli anni, ci furono registi e attori che misero in piedi teatri ancora oggi esistenti. Pensiamo al Teatro Elfo di De Capitani e Salvatores. L’amministrazione sostenne chi si stava mettendo in gioco e Milano riprese a respirare e a farsi apprezzare all’estero. Pensiamo alla grandissima concentrazione di registi in città: i più grandi artisti del cinema provenienti dalla Polonia, pensiamo poi a Carmelo Bene, ai grandi musicisti, alle grandi mostre. Ricordo quella sui Longobardi che piacque molto a Testori, quella sulla Ca’ Granda… La strada è quella.
Da ultimo, si sono appena concluse le primarie con cui il centrosinistra ha scelto il proprio candidato per le prossime elezioni comunali. Come si spiega lo stato di minorità che la sinistra ha attraversato in questi anni? Qual è la sua previsione sulla partita che si giocherà a Milano?
Sul primo punto non posso che sottolineare una cosa evidente. Il socialismo riformista che a Milano aveva una capacità di guida e che, pur non essendo maggioritario, raccoglieva il 20%, è andato perso. La sinistra dovrebbe semplicemente interrogarsi su questo. Eravamo l’aggancio tra il centro e la sinistra, tra i lavoratori e la borghesia imprenditoriale…
Sulla partita che si gioca oggi devo dire che i candidati alle primarie erano tutti di grande livello. La fotografia che Cacciari ha proposto al vostro giornale mi sembra però molto interessante. Vedremo se saprà diventare davvero un film…
(Carlo Melato)