Il 19 novembre 1910 moriva Carlo Alberto Pisani Dossi, figura di spicco della Scapigliatura. Nulla di trasgressivo nella sua vita, a differenza degli altri esponenti di un movimento che viene oggi apprezzato come tentativo di rottura con il Romanticismo languente e come avanguardia linguistica. Nato nel 1849 da nobile famiglia, discendente addirittura da Beccaria, studia a Milano e a Pavia e comincia giovanissimo a interessarsi di lettere, fondando una rivista che diventa punto d’incontro di giovani scapigliati come Cremona, Grandi e altri che riconoscevano in Rovani il loro maestro. Nel 1870 si trasferisce a Roma, dove diventa collaboratore personale di Crispi; insieme alla moglie e ai tre figli nel 1892 viene inviato come console prima a Bogotà, poi ad Atene. Qui può assecondare la sua passione per l’archeologia, che diventa con il ritiro dalla vita pubblica nel 1901 la sua occupazione preferita.
Nei romanzi di Dossi la trama sembra allentarsi fino a diventare quasi solo un pretesto per “esprimere idee”. All’eccentricità strutturale si accompagna una notevole novità di linguaggio, che accosta parole italiane arcaiche a dialettismi, forme straniere, latinismi, in un ricchissimo gioco quasi espressionista. Il carattere inedito della lingua di Dossi è funzionale alla sua poetica, all’umorismo inteso soprattutto come mezzo di conoscenza. Da questo punto di vista i suoi maestri sono altri due lombardi, Manzoni e Porta: il primo, respinto come stanco modello di pietismo e riletto invece con attenzione al suo humour; il secondo ammirato per l’uso della lingua e per la comicità della fantasia.
Le Note azzurre, il lungo diario contenuto in sedici cartelle azzurre composto tra il 1870 circa e il 1907, rappresentano nella storia letteraria italiana qualcosa di irripetibile. In apparenza raccolta di osservazioni e commenti di varia natura, esse sono in realtà un’opera unitaria, specchio deformante dell’epoca immediatamente successiva alla formazione dello Stato unitario, serbatoio in cui confluiscono gli umori più sottili dell’intera generazione post-romantica, filtrati attraverso un ingegno capriccioso, sensibile alle più diverse sollecitazioni.
Il nome del villaggio dove nacqui, tra i colli dell’Oltrepò pavese, predisse il mio carattere: Zenevredo, ossia Ginepreto – odoroso e ispido.
Importanza di mantenere i cosiddetti dialetti: che sono uno strato mobile nella lingua di un paese, dove si generano e si educano le nuove parole, che poi adattandosi a poco a poco all’orecchio dei parlatori, cadono inavvertitamente nella penna degli scrittori, finché, acquistata autorità, vengono assunte all’onore dei dizionari. Il dizionario sta alla lingua, come alla morale la legge. La lingua rappresenta la immutabilità; il dialetto il suo contrario. Questo è il sentimento, l’altra la legge.
A Venezia, quando c’è la luna, par di passeggiare in una acquaforte. A Venezia l’architettura dà le emozioni della musica.
Note autobiografiche si alternano a giudizi letterari e politici spregiudicati, a spunti di novelle e romanzi mai scritti, ad aforismi, a puntate sarcastiche, a fantasiose ironie. Un apparente monologo, animato da aneddoti anche scabrosi su personaggi illustri o meno della società milanese e italiana, si rivela effettivo dialogo con un mondo in rapida evoluzione, di fronte al quale Dossi testimonia una preoccupazione morale che si avvia a divenire sociale. Carattere introverso, ombroso e inquieto, nella libertà assoluta del frammento più che nella costrizione narrativa, egli trova la possibilità di una compiuta espressione e la sua prosa si rivela come il frutto più maturo della Scapigliatura lombarda.