«Se ripercorriamo la storia della città di Milano e osserviamo com’è cambiato il lavoro nel corso degli anni alcune caratteristiche peculiari che sono rimaste nel tempo emergono chiaramente. “Flessibilità” e “plasticità” innanzitutto. Per flessibilità intendo un mercato del lavoro mai troppo legato al posto fisso. Anche nelle grandi imprese, infatti, i lavoratori più qualificati hanno avuto a lungo la possibilità di spostarsi per migliorare la propria situazione lavorativa. C’è poi un altro aspetto: attorno alle grandi industrie presenti in città non è mai mancato un tessuto costituito da una microimprenditorialità diffusa. Dalle piccole attività alla vendita al dettaglio, fino ad arrivare alle “sartine” e ai “lavoreri”. Una vitalità diffusa e molteplice da cui hanno progressivamente preso le mosse le attività terziarie più moderne». Aldo Carera, Docente di Storia Economica all’Università Cattolica di Milano, inizia così il suo intervento nel dibattito de IlSussidiario.net sul mondo del lavoro nel capoluogo lombardo.
Cosa intende invece quando parla di “plasticità”?
Mi riferisco alla capacità di adattamento alle trasformazioni del mercato del lavoro e della produzione. Il confronto con una città come Torino può essere illuminante. Nel capoluogo piemontese l’economia è stata sempre strettamente legata al settore meccanico. A Milano invece non si è mai verificata una dipendenza da un solo settore, da una sola impresa o dallo Stato. Anche durante il Fascismo, ad esempio, nell’epoca delle grandi imprese pubbliche, il cuore economico della città ha mantenuto la propria autonomia dalla mano pubblica. La stessa politica, in questa città, non è mai stata rilevante, ma ha costituito nel corso degli anni una sorta di “griglia neutra”. Per tutti questi motivi di fronte alle varie crisi la città ha sempre avuto la capacità di rispondere in maniera dinamica. Una caratteristica importante che ha inciso anche sulla forma che la città ha preso, sul suo inurbamento.
Cosa intende?
Non è un caso se a Milano si sono verificate in misura minore, rispetto ad altre città, quelle grandi concentrazioni della classe operaia, ghetti più che quartieri operai, (che Danilo Dolci chiamerà poi le “coree”). Questo non è avvenuto perché Milano ha avuto la capacità di integrare la urbs con la civitas e nell’impostare le relazioni economiche su coesistenza, condivisione e sussidiarietà. È così che sono state attutite le tensioni e le cause del conflitto. Per questi stessi motivi l’immigrazione in città non ha creato i problemi che ha creato altrove ed è stato possibile valorizzare il lavoro femminile.
Quale radice culturale c’è dietro questo “modello Milano”?
Parlerei di un patrimonio di valori che chi è arrivato in questa città ha sempre potuto incontrare, un’idea del lavoro e della sua dignità che è arrivata dal lavoro artigiano e che ha saputo poi influenzare anche il lavoro operaio. D’altronde Milano è sempre stata una città aperta, un punto di incontro e di mercato fin dal Medioevo.
Questo modello ha tenuto o la città sta perdendo qualcosa di questo suo patrimonio?
Una certa dinamicità è rimasta e questo rende più facile affrontare le crisi. È interessante fare ancora un passo indietro: a molti può sembrare strano il fatto che la “città delle grande imprese” sia diventata la “città dei servizi” senza grandi drammi. In realtà la città industriale nata a fine ‘800, quella della Pirelli e dell’Alfa Romeo per intenderci, favorì la domanda di servizi. Un’attività certamente meno visibile e meno enfatizzata come d’altro canto la “città delle piccole e medie imprese”, che è poi il vero modello economico di riferimento del capoluogo lombardo. Se invece parliamo di rete vedo qualche problema in più.
A cosa si riferisce?
La società sembra più disgregata e meno capace di integrare le singole persone. E così se la “flessibilità” di cui parlavamo all’inizio era una qualità che viveva all’interno di un tessuto sociale, oggi rischia di trasformarsi nel “precariato”, un’incertezza che mette in dubbio la vita e il futuro. Una condizione che si vive in una società più aggressiva, in cui le persone risultano più sole e, quindi, meno dotate di tutele. Una situazione che per certi aspetti ricorda l’Inghilterra di inizio ‘800: non c’è più rete, il rapporto di lavoro viene gestito in maniera individuale e psicologica, anche al di fuori delle regole. Basta tenere gli uffici aperti per far lavorare di più le persone, senza alcun problema. Visto però che Milano ha sempre saputo reagire, sono convinto che lo farà anche su questo versante.
Da ultimo, perché la città non sa più formare i giovani ad alcuni “mestieri” come l’elettricista, l’idraulico, il piastrellista o il tornitore?
Da un lato per il cambiamento di attese che si è verificato nella società, dall’altro per un malinteso culturale che ha identificato nel lavoro intellettuale l’unica strada per il successo personale dei giovani. Anche il lavoro manuale, che tra le altre cose è sempre più qualificato, può invece realizzare la persona.
A partire da queste premesse è derivata una perdita di senso del lavoro, il depotenziamento delle scuole di formazione professionale, la perdita di interesse e di riconoscimento sociale nei confronti di esse a favore di un riconoscimento più formale del lavoro e del culto del famoso “pezzo di carta”.