Con La donna allo specchio di Tiziano, in mostra dal 3 dicembre al 6 gennaio 2011 a Palazzo Marino a Milano, prosegue la fortunata serie di esposizioni di un solo capolavoro, inaugurata nel 2008 con la Conversione di San Paolo di Caravaggio e con il San Giovannino di Leonardo nel 2009.
L’opera giovanile di Tiziano Vecellio, dipinta attorno al 1515, spicca nella penombra della sala Alessi, appesa al centro di una parete chiara rivestita di una tela di canapa e lino; il quadro non è di grandi dimensioni e la luce accarezza il bianco rosato del viso e del decolleté, quello più candido delle trine della camiciola lievemente scostata e non ancora allacciata ai polsi.
L’occhio del visitatore solo in un secondo momento si accorge della bellezza delle chiome bionde non ancora composte, ma raccolte in una treccia sciolta, e della figura maschile, che porge alla donna due specchi con i quali ella può verificare l’esito dell’acconciatura.
Due personaggi. Chi sono? Non è dato saperlo con precisione. Forse l’amante di Tiziano, forse una nobile sorpresa nel quotidiano rituale della toletta, forse il pittore stesso, forse un inserviente, forse l’allegoria della Vanità. Oppure la rappresentazione della Bellezza ideale, nei due versanti previsti dall’etica rinascimentale, la sublimazione d’ascendenza neoplatonica e la sensualità che leggiamo in Ariosto o in Gaspara Stampa.
Seduzione e complicità si intrecciano nel tono sospeso che lega i due personaggi, nello sguardo assorto della donna che non fissa lo specchio, ma si spinge con segreta pensosità più lontano, del tutto incurante del compagno, ammesso ad ammirare nel silenzio una scena di assoluta intimità.
Due personaggi, due specchi. La raffinata allusività del dipinto, sospeso tra realismo quotidiano ed elaborazione simbolica, si rivela nel tema dello specchio. A Venezia l’arte del vetro è coltivata a partire dal tredicesimo secolo; nel Cinquecento vi fiorisce la produzione degli specchi. In pittura essi sono usati per gli autoritratti, consentono di raffigurare la profondità, desiderio scaturito da una disputa letteraria in corso proprio in quel secolo e in ambito veneto, su quale delle due arti, la scultura o la pittura, fosse superiore, anche per la resa della terza dimensione.
Notevole è la potenzialità simbolica dello specchio: da allusione al tema della vanità a quello del memento mori, dalla riflessione filosofica al timore di forze oscure e diaboliche in esso raccolte.
Il dipinto sembra raffigurare la donna di Petrarca: “Erano i capei d’oro a l’aura sparsi/ che ‘n mille dolci nodi gli avolgea, / e ‘l vago lume oltra misura ardea/ di quei begli occhi ch’or ne son sì scarsi”: il modello stilnovista passa all’estetica di Pietro Bembo, padre del petrarchismo del Cinquecento e intimo amico di Tiziano. Il pittore sembra chiedersi a che cosa stia pensando la donna che ha dipinto, immersa nella sua solitudine, nel vuoto dei suoi pensieri, forse inappagata.
Significativo è il particolare dell’anello al mignolo della mano sinistra che sfiora la boccetta contenente forse il liquido per scolorare i capelli: al tempo era prerogativa delle donne nubili, di ceto agiato, che non avevano bisogno del matrimonio per migliorare la loro condizione sociale.
Donna affascinante e sfuggente, i suoi occhi non incontrano né l’uomo del dipinto, né lo spettatore. La sua morbidezza rimane chiusa in lei, non si dona, se non nell’immagine di una bellezza pudica e insieme sensuale.
Resta in primo piano la bianca luminosità di questa giovane misteriosa, che ha una certa attinenza con la grazia, intesa nel duplice senso dell’armonia coltivata nel Cinquecento e del dono che giunge inaspettato: una presenza che rimanda alla possibilità che la penombra dei giorni soliti si diradi all’apparire della bellezza.