“La Mamy è proprio come una mamma. Affidabile, ti vizia ogni giorno e con lei non rischi scottature”. Quando Bruno Camerlengo parla della sua creazione, gli brillano gli occhi. Ci ha investito tempo, intelletto, denaro. Ha rischiato e rimediato cocenti delusioni per lei. Ma è andato avanti, anche quando altri imprenditori meno tenaci avrebbero mollato. E ora raccoglie i frutti della sua perseveranza. 



Camerlengo, cos’è la Mamy?

La Mamy è una moka. Una caffettiera, ma molto speciale, infatti la puoi mettere nel microonde e se usi il latte al posto del caffè ci fai un caffelatte buonissimo. 

Mi scusi, ma perché dovrei mettere la moka nel microonde?

Innanzitutto risparmia tempo: in 2, 3 minuti al massimo ottiene un caffè delizioso. Più buono di quello delle moke tradizionali, perché la bevanda non prende il sapore del metallo . In più non rischia di scottarsi: infatti la caffettiera rimane fredda quando la toglie dal microonde. E se non bevi tutto il caffè, lo può riscaldare in un minuto la volta dopo senza pregiudicarne il gusto. In ultimo ha la garanzia al 100% della sua pulizia. È stata testata da un agente esterno che ne ha certificato la completa atossicità. D’altronde è fatta con materiale testato per alimenti…



Come lei è venuta in mente questa idea?

Io mi occupo da una vita di materiale plastico. Nel 2004, però, con un’azienda del settore piccoli elettrodomestici abbiamo pensato potesse essere una bella trovata mettere la moka nel microonde. Ormai il microonde c’è quasi in ogni casa. Così abbiamo sviluppato il progetto. Il nostro partner nel 2005 ha messo sul mercato il prodotto. Sbagliando però la strategia: la caffettiera era venduta a un prezzo troppo alto (quasi 60 euro) e finì per essere bocciata dal mercato. In più l’azienda che l’aveva commercializzata fallì senza nemmeno pagarci progetto e forniture…



Si è dato per vinto?

Certo che no. Sapevo che l’idea della moka nel microonde era ottima e aveva delle potenzialità. Nel 2009 l’azienda andò in liquidazione e non potendoci dare denaro ci restituì il brevetto internazionale e le attrezzature. Così decisi di continuare a credere nella mia invenzione, che ai quei tempi non si chiamava ancora Mamy. Il brevetto mi garantiva di essere l’unico a poter produrre e distribuire una moka con parte superiore schermata da una foglia di alluminio. Una caffettiera, cioè, sicura al 100% a differenza delle altre. Noi però c’eravamo sempre occupati, come impresa, di stampaggio di materiale plastico per conto terzi. Non avevamo esperienza nel commerciale, così decidemmo di affidarci a un canale di vendita esterno.

Come è andata?

Male. Quest’azienda aveva firmato un contratto in cui si impegnava a distribuire 100mila moke all’anno. Aveva affibbiato il nome di Cesarita alla caffettiera, perché uno spot televisivo sarebbe dovuto andare in onda durante “I Cesaroni”, su Canale 5. Ma dopo pochi mesi, sono stato costretto a rescindere l’accordo. L’azienda non aveva mantenuto le promesse ed eravamo punto e a capo. 

In molti avrebbero lasciato perdere a questo punto…

Io no. La scorsa estate decisi che avrei provato a occuparmi anche della parte commerciale. A fare tutto da solo, insomma, dando alla macchina il nome di Mamy. Sono partito facendo diversi spot sulle tv locali del nord Italia e regalando ai negozi la moka per testarne la qualità. Il risultato è stato sorprendente. Piaceva a tutti e ora ho in media 50 negozianti al giorno che chiamano in ditta per ordinare almeno 10 pezzi. Mi sono dovuto attrezzare con un call center, un sito apposito per il prodotto e una rete di distribuzione. Pensi che ho esportato la Mamy anche in Russia, dove le 6.000 confezioni sono andate letteralmente a ruba. Stiamo pensando di espanderci un po’… 

Facciamo un salto indietro: come nasce il Camerlengo imprenditore?

Nasce dal Bruno Camerlengo operaio. Addetto al carrello negli anni ’80. Dopo anni in fabbrica, in seguito anche da dirigente alla Gilardini, nel 1998 insieme a due colleghi abbiamo provato a metterci in proprio. Poi nel 2002 ho fondato una mia azienda, la Progetti, poi diventata Ast, che è il nome che ha ancora oggi.

Lei è entrato da giovane in stabilimento, poi è diventato dirigente e infine imprenditore. Un iter del genere è possibile per chi si affaccia ora al mondo del lavoro?

Devo dire che oggi tutto questo è molto più difficile. Ora fare carriera partendo dal basso è complicato: spesso i dipendenti arrivano da aziende terze e le imprese non hanno tempo, denaro e interesse da investire sulla crescita del personale interno. In più ci mettiamo che pure i giovani italiani non hanno più grande forza di volontà…

E poi ci si mette anche la crisi…

Credo che la crisi sia molto più sentita dalle grosse aziende che dai piccoli. Il perché è semplice, i piccoli possono essere più flessibili. Per le imprese più grandi credo non ci sia alternativa alla via presa in questi giorni da Marchionne per la Fiat. Purtroppo l’alta qualità dei prodotti italiani non basta più per vincere sul mercato. Serve contenere i costi. Anche sacrificando qualcosa, come fatto a Pomigliano e Mirafiori di recente.

Ci dia qualche numero sull’Ast…

Siamo una realtà con sede legale a Milano, ma stabilimento a Turate, in provincia di Como. Abbiamo 20 dipendenti, di cui però solo 7 interni. Sa, dobbiamo ridurre al massimo i costi per crescere come impresa. Nel 2010 chiuderemo con un fatturato vicino al milione e mezzo di euro. Di questi, circa 600.000 euro arrivano dalla Mamy, mentre gli altri sono derivanti dalla nostra tradizionale attività di stampaggio per conto terzi. Per il 2011 prevediamo di crescere oltre i due milioni, grazie soprattutto alla Mamy… 

Le vuole proprio bene…

Quasi come alla mamma…

(Marco Guidi)

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