Quest’anno Franco Loi, poeta, critico e saggista, ha compiuto ottant’anni. Nato a Genova  nel 1930 da padre sardo e madre emiliana, dal 1937 vive a Milano, di cui ha adottato il dialetto, coniando un linguaggio ibrido che attinge a piene mani dagli idiomi e dai gerghi raccolti negli ambiti popolari e proletari della città e della sua periferia. Operaio, diplomato in ragioneria, impiegato all’ufficio stampa della Mondadori, attualmente collabora a vari periodici.



Di recente la rivista “Vita e Pensiero” ha ospitato un suo contributo sulla nascita e la funzione della poesia. Con un linguaggio semplice, Loi dice cose profonde, come quando afferma la necessità “che ognuno si senta strumento e non artefice dello spirito”.

Questo atteggiamento di rispetto e di attesa distingue la vera arte, la cui vocazione non è quella di togliere il velo alle cose, ma di rappresentarle. La vita si regge su una logica che non è accessibile all’uomo. “La verità è infatti sempre accoppiata al mistero”. Sono queste espressioni a far luce su una ricerca poetica iniziata nel 1965 con toni più energici, divenuti poi sempre più aperti, sia alla memoria collettiva che sola può individuarne i significati, sia al mistero di Dio presente. “La poesia è essenzialmente una testimonianza dell’esperienza dello spirito”: così il poeta, al culmine della propria maturità, conclude la sua recente testimonianza.



Sun növ, sun tütt refâ, sun pü miseria,
g’û ‘na cansun nel cör e sù cantà.
Uh Diu, fàm no sbalià, fa che la vita
se derva anca per mì, fàm respirà!
Sù minga cume dìl quèl che me strèppa
e cusa sia sta gioia che fa piang.
Me senti un taremot sensa resposta
e vu legger ne l’aria che me piâs.

(Sono nuovo, sono tutto rifatto, non sono più miseria,
ho una canzone nel cuore e so cantare.
Oh Dio, non farmi sbagliare, fa che la vita
si apra anche per me, fammi respirare!
Non so come dirlo quello che mi strappa dentro
e cosa sia questa gioia che fa piangere.
Mi sento un terremoto senza risposta
e vado leggero nell’aria che mi piace).



Questa breve poesia contiene alcuni temi cari a Loi: in primo luogo il rimando al respiro, all’aria, l’elemento più leggero e più simile al vento dello spirito. Esso ricorre molto spesso nella sua larga produzione poetica, tanto da diventare da puro fatto fisico emblema della libertà interiore. Con il passare degli anni la ricerca di Loi si è spostata verso un  colloquio più serrato con il Dio nascosto, ma presente e compagno, come in questa poesia del 1988, pubblicata nella raccolta "Liber":

Sèm poca roba, Diu, sèm squasi nient,
forsi memoria sèm, un buff de l’aria,
umbría di òmm che passa, i noster gent,
forsi ‘l record d’una quaj vita spersa,
un tron che de luntan el ghe reciàma,
la furma che sarà d’un’altra gent…
Ma cume fèm pietâ, quanta cicoria,
e quanta vita se porta el vent!
Andèm sensa savè, cantand i gloria,
e a nüm de quèl che serum resta nient.

(Siamo poca roba, Dio, siamo quasi niente, 
forse memoria siamo, un soffio d’aria, 
ombra degli uomini che passano, i nostri parenti, 
forse il ricordo d’una qualche vita perduta, 
un tuono che da lontano ci richiama, 
la forma che sarà di altra progenie…
Ma come facciamo pietà, quanto dolore,
e quanta vita se la porta il vento! 
Andiamo senza sapere, cantando gli inni, 
e a noi di ciò che eravamo non è rimasto niente). 

Una raccolta poetica successiva, del 2002, intitolata "Isman", si conclude con una composizione serena, in cui al tema dell’aria si aggiunge quello della sera, che non suggerisce tuttavia la consueta malinconia del giorno che muore, ma piuttosto la gratitudine per tutto ciò che c’è:

Cume me pias el mund! L’aria, el so fiâ!
j àrbur, l’èrba, el sû, quj câ, i bèj strâd,
la lüna che se sfalsa, l’èrga tra i câ,
me pias el sals del mar, i matt cinâd,
i càlis tra i amís, i abièss nel vent,
e tücc i ròbb de Diu, anca i munâd,
i spall che van de pressia cuj öcc bass,
la dònna che te svisa i sentiment:
l’è lí el mund, e par squasi spettàss
che tí te ‘l vàrdet, te ghe dét atrâ,
che lü ‘l gh’è sempre, ma facil smemuriàss.
tràss föra ind i pernser, vèss durmentâ…
Ma quan’ che riva l’umbra de la sera,
‘me che te ciama el mund! cume slargâ
te vègn adòss quèl ciel ne la sua vera
belessa sena feng nel so pensàss,
e alura del tò pien te càmbiet cera.
(Come mi piace il mondo! l’aria, il suo fiato!
gli alberi, l’erba, il sole, quelle case, le belle strade,
mi piace il salso del mare, le matte stupidate,
i calici tra gli amici, gli alberi nel vento,
e tutte le cose di Dio, anche le piccolezze,
e i tram che passano, i vetri che risplendono,
le spalle che vanno di fretta a occhi bassi,
la donna che ti turba i sentimenti:
è lì il mondo, che sembra aspettarsi
che tu lo guardi, che gli dai retta,
poiché lui c’è sempre, ma è facile dimenticarlo,
distrarsi nei pensieri, essere addormentati…
Ma quando arriva l’ombra della sera,
come ti chiama il mondo! come si allarga
e ti viene addosso quel cielo nella sua vera
bellezza senza finzioni nel suo riflettersi,
e allora per la tua pienezza cambi colore).

Un giorno mi piacerebbe parlare degli occhi,  gli occhi di donna, dice Loi in una lirica di sapore quasi stilnovistico. E spiega: “È vero che la donna è un tramite alla vita, che ha un particolare rapporto con le cose carnali e concrete. Ma quando Dante arriva a vedere Dio, scrive: «All’alta fantasia qui mancò possa». Cioè esprime l’impossibilità di dire l’assoluto. Io dico che Dio è in tutte le cose. Nel rapporto con la realtà sentiamo un cosa – un fiore, una persona, il cielo, le stelle, gli alberi – e magari ci emozionano, però non sappiamo bene cosa sia l’essenza di queste cose. Tale impossibilità di dire è il nascondimento di Dio, come viene definito in teologia. Vorresti dirlo, come per gli occhi di donna, ma non sai come dirli. Allora dici qualcosa attorno, entri appena appena nel senso di questa impossibilità. La poesia, in fondo, è il dire ciò che è impossibile”.