L’ammirazione che Agostino nutriva per il vescovo Ambrogio è ben documentata nelle Confessioni. I due si incontrano nel 384 a Milano, centro militare, culturale e politico assai vivo. Ambrogio, nato a Treviri intorno al 340, figlio di un funzionario imperiale, era giunto all’episcopato dalla carriera civile quando, da prefetto della città, nel 374 era stato acclamato dal popolo come pastore. Uomo di governo accorto e fermo, oppositore del paganesimo e dell’arianesimo, consigliere e antagonista di imperatori, la sua eloquenza era rinomata. In questa veste egli attrae l’attenzione di Agostino, che racconta: “Frequentavo assiduamente le sue istruzioni pubbliche, non però mosso dalla giusta intenzione: volevo piuttosto sincerarmi se la sua eloquenza meritava la fama di cui godeva, ovvero ne era superiore o inferiore. Stavo attento, sospeso alle sue parole, ma non m’interessavo al contenuto, anzi lo disdegnavo. La soavità della sua parola m’incantava”.



Poco oltre Agostino ricorda come non gli fosse possibile avvicinare Ambrogio e sottoporgli la sua faticosa ricerca della verità a causa degli incessanti impegni del vescovo e come fosse sorpreso per la sua abitudine, singolare nell’antichità, alla lettura mentale: “Non mi era possibile interrogarlo su ciò che volevo e come volevo. Caterve di gente indaffarata, che soccorreva nell’angustia, si frapponevano fra me e le sue orecchie, tra me e la sua bocca. I pochi istanti in cui non era occupato con costoro, li impiegava a ristorare il corpo con l’alimento indispensabile, o l’anima con la lettura. Nel leggere, i suoi occhi correvano sulle pagine e la mente ne penetrava il concetto, mentre la voce e la lingua riposavano. Sovente, entrando, poiché a nessuno era vietato l’ingresso e non si usava preannunziargli l’arrivo di chicchessia, lo vedemmo leggere tacito, e mai diversamente”.



Proprio per dedicarsi con più libertà al suo compito, Ambrogio affida al fratello Satiro l’amministrazione dei beni della diocesi e alla sorella Marcellina l’educazione delle fanciulle. Nei pressi delle porte di accesso alla città fa costruire quattro basiliche, quasi a formare un quadrato protettivo e ad accogliere i pellegrini: San Nazaro presso porta Romana, San Simpliciano dalla parte opposta, l’attuale Sant’Ambrogio e la perduta San Dionigi. Pastore della città in cui risiede la corte imperiale, Ambrogio influisce anche sulla vita politica in tempi in cui potere politico e religioso sono strettamente legati. L’episodio più significativo  avviene nel 390, quando il vescovo minaccia di scomunica l’imperatore Teodosio, che aveva ordinato di massacrare migliaia di persone tra la popolazione di Tessalonica, rea di aver linciato il capo del presidio romano della città. Solo dopo aver fatto pubblica penitenza, Teodosio viene  riammesso ai sacramenti.



Nutrito ogni giorno dalla lettura orante della parola di Dio, Ambrogio ne è anche facondo interprete in numerose opere esegetiche, dogmatiche e morali. Celebri sono i suoi inni liturgici, della cui origine riferisce ancora Agostino: nel 386 l’imperatrice Giustina aveva ordinato la cessione di una chiesa agli ariani; al rifiuto opposto dal vescovo, le truppe imperiali assediano l’edificio: “Vigilava la folla dei fedeli ogni notte in chiesa, pronta a morire con il suo vescovo. Noi stessi, sebbene freddi ancora del calore del tuo spirito, ci sentivamo tuttavia eccitati dall’ansia attonita della città. Fu allora che si cominciò a cantare inni e salmi secondo l’uso delle religioni orientali, per evitare che il popolo deperisse nella noia e nella mestizia”. Lo stile delle sue opere rivela l’assimilazione dell’andamento poetico delle Scritture e la conoscenza della retorica antica, come in questo brano, tratto da La verginità:

“Cristo è tutto per noi.
Se vuoi curare una ferita, Egli è il medico;
se sei riarso dalla febbre, Egli è la fonte;
se sei oppresso dall’iniquità, Egli è la giustizia;
se hai bisogno di aiuto, Egli è la forza;
se temi la morte, Egli è la vita;
se desideri il cielo, Egli è la via,
se sei nelle tenebre, Egli è la luce”.

Ambrogio muore nella notte tra il 3 e il 4 aprile del 397, all’alba del Sabato santo. Nel silenzio delle parole, le sue braccia spalancate in croce esprimono la partecipazione del vescovo morente alla passione del Signore e definiscono il centro di tutta la sua opera.