L’intervista a Stefano Boeri è tratta dall’ultimo numero del settimanale Vita in edicola

Un immenso Orto planetario nel cuore di una delle zone più urbanizzate d’Europa. Non è scommessa da poco quella lanciata da Milano per l’Expo 2015. Non lo è per Milano, che prova a immaginarsi uno sviluppo futuro molto diverso da questo suo recente passato. E non lo è per l’Expo che cerca di rinnovare radicalmente il proprio concept, dopo l’inarrestabile declino delle ultime edizioni. Mancano meno di 1800 giorni al via, e le fibrillazioni della politica e degli interessi economici sembrano sempre sul punto di mandare all’aria tutto.



L’Expo 2015 infatti è un oggetto dalla natura strana. Da una parte ha visto il coinvolgimento in funzione chiave di personaggi di grande calibro come i componenti della consulta che ha messo a punto il concept e il master plan (Richard Burdett, Joan Busquets, Jasques Herzog e William McDonough e Stefano Boeri). Dall’altra è vittima di una macchinosità nella governance, che paralizza ogni scelta e semina elementi contradditori ad ogni passo.



«L’Expo così com’è stato pensato non è un’idea che puoi sposare a metà. L’abbiamo scelta, ha avuto il consenso entusiasta degli organi del Bie parigino. Scommettiamoci sino in fondo». Stefano Boeri, l’architetto italiano che ha fatto parte della consulta, con questa intervista rompe gli indugi. E invita tutti a fare altrettanto. «Ci vuole una rete trasversale che sostenga le grandi novità introdotte dal modello dell’Expo 2015».

Architetto, facciamo un passo indietro. Per quale ragione siete arrivati a proporre un’idea di Expo così innovativa e così ambiziosa?

Quando ci siamo trovati, la prima preoccupazione è stata di valorizzare il tema scelto “Nutrire il pianeta. Energia per la vita”. Un tema che ha non solo una valenza ma anche un’urgenza universale. Un tema pervasivo, che incrocia tutti i paradossi e gli squilibri della globalizzazione. Un tema decisivo per il futuro del nostro pianeta.



Ma Milano è la città giusta per lanciare un tema di questo tipo?

Può esserlo, a patto di riscoprire una sua anima dimenticata, quella di capitale di un grande sistema agricolo, imperniato sull’asse del Po e della pianura padana. Milano è anche dotata di uno dei più grandi parchi agricoli d’Europa: il parco sud con i suoi 42mila ettari è patrimonio che nessun’altra città in Europa ha. Il tema quindi a Milano non è fuori luogo.

Gli Expo sembrano eventi ormai su un piano inclinato di una inarrestabile decadenza. Vi siete posti la questione?

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Gli ultimi Expo hanno avuto afflusso di pubblico molto inferiori alle attese, e si sono ridotti a un grandi fierone rivolto ad una platea locale. Anche perché il tema dell’Expo viene poco rispettato sia dai paesi ospitanti che da quelli ospitati: a Shangai, nell’expo in corso, solo cinque o sei stati si sono attenuti al tema. Gli altri sono andati per la loro strada: l’Italia, la Francia, la Germania, hanno realizzato padiglioni autocelebrativi, fatti per incentivare il turismo dei cinesi.

 

E cosa vi garantisce che a Milano non succeda altrettanto?

 

Il sito espositivo è stato concepito in modo del tutto inedito: non ci sarà la solita sequenza ormai anacronistica di padiglioni e di prodotti commerciali. Il sito è stato progettato per incarnare il senso stesso della grande sfida della nutrizione. Il concetto alla base è la sperimentazione simultanea di tutte le coltivazioni del mondo. Il terreno è stato suddiviso in 150 lotti disposti in modo geometrico e affacciate su un lungo percorso centrale – il viale dei popoli – dove un grande tavolo metterà in condizione il visitatore di degustare direttamente i prodotti derivati dalle coltivazioni. Nel suo lotto, ogni Paese del mondo – ripeto, ogni Paese – potrà ricostruire le sue filiere alimentari, mostrare le tecnologie più avanzate o la biodiversità dei suoi prodotti. In questo modo verrà evitato lo spettacolo poco decoroso della diseguaglianza di dimensioni e spettacolarità dei padiglioni: oggi a Shangai quello americano è grande come quello che raccoglie i 40 paesi africani.

 

I visitatori capiranno?

 

È la nostra scommessa. Un luogo di coltivazione e di produzione e non solo di esposizione. Noi pensiamo che un’idea di questo tipo abbia una grande attrattività, perché consente una presa diretta del tema e pone i visitatori dentro un paesaggio vivo, dinamico e non dentro dei padiglioni dove si presentano delle “bellezze” turistiche. E non dimentichiamo che accanto ai Padiglioni ci sarà un grande parco scientifico agroalimentare che l’Expo lascerà a Milano e che il mondo ci invidi erà. Abbiamo studiato altre esperienze di analoghi parchi a tema come quella di Eden project, in Cornovaglia ed è un grande successo: oggi ha quasi 3 milioni di visitatori l’anno.

 

Il sito è la questione più delicata tra tutte quelle ancora aperte. Lei sul Corriere della Sera ha lanciato l’allarme sui progetti di edificazione post Expo. Un’ipotesi che rischia di affondare il modello dell’Expo?

 

La mia sensazione è che non ci sia interesse a capire il senso profondo di questo progetto. A volte mi chiedo se sia stato scelto perché, in un momento delicato, era l’unico capace di rilanciare le ambizioni di Milano e forse anche perché poteva aiutare a sedare una nascente conflittualità verso la gestione dell’expo, soprattutto da sinistra. Poi però ne è stata fatta una gestione troppo tatticista. E il progetto, le sue ambizioni, la sua visionarietà, non sono mai stati raccontati davvero alla città. Riguardo al sito invece si è lasciato che i proprietari privati dell’area sviluppassero un’immotivata aspettativa immobiliare sull’uso dell’area dopo l’Expo, puntando su volumi edificatori incompatibili con la nostra idea dell’Orto Planetario. Ma il problema di fondo è che non c’è un vero convincimento. C’è interesse, ma non si va aldilà di quello. Tremonti ha capito che l’idea è interessante, anche perché è un progetto che fa spendere molto meno del precedente. Ma poi non ha dato altri segnali. La Lega, a quanto mi risulta, ha mostrato interesse con Zaia, ma ancora non sente suo l’evento, vede muoversi questo mondo strano che non le appartiene.

 

Quando la Consulta degli architetti si è insediata la scelta del sito era già stata fatta?

 

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Sì. Ed è la prima volta che per l’Expo veniva scelto un sito non pubblico. È un sito difficile perché si trova in mezzo ad un agglomerato di infrastrutture. Personalmente avrei preferito una scelta diversa: ad esempio uno degli scali ferroviari dismessi nel cuore della città. Oppure il Parco Forlanini che aveva il pregio di attaccarsi al sistema agricolo milanese. Ma ora la scelta è questa e alla fine può diventare ancora più intrigante rispetto al tema. Perché questa non è un’operazione nostalgica, di ritorno al passato. Il senso dell’Expo è di raccontare al mondo un nuovo modello di agricoltura, polivalente e capace di scambiare risorse con la sfera urbana, in una sfida comune per risolvere il problema dell’alimentazione. Questa sfida deve trasformare Milano in un laboratorio avanzato del pianeta.

 

Invece il rischio è che il sito dell’Expo venga trasformato in una piccola Manhattan con indici di costruzione altissimi?

 

Il rischio c’è. Eppure bisognerebbe fare i conti con la domanda del mercato immobiliare. Abbiamo calcolato che intorno al sito dell’Expo si stanno costruendo quasi 4milioni di metri cubi, tra abitazioni ed uffici. Uno sproposito se si pensa che in città ci sono 850mila metri quadri di uffici invenduti o sfitti e diverse migliaia di appartamenti vuoti. Quella di una grande densità di costruzioni dopo l’Expo mi sembra una prospettiva che non tiene neppure dal punto di vista economico.

 

Invece nei vostri piani cosa sarà l’Expo dopo l’Expo?

 

Con l’Expo 2015, Milano realizzerà il primo Orto agroalimentare Planetario. Un paesaggio inedito che, nella nostra idea, andrà conservato nella sua integrità, senza successivi inutili e perfino dannosi interventi di edificazione. L’ho definito un luogo dove sarà possibile vedere all’opera una nuova ruralità, polivalente. Un tempo i confini tra la sfera urbana, quella rurale e quella naturale erano tracciati con molta chiarezza. Oggi non è più così. Per questo la sfida è quella di realizzare un sito espositivo che mostri al mondo come si possa usare in modo diverso il binomio tra urbanità e ruralità. Le grandi serre in cui verrà ricostruito l’ecosistema di diverse zone climatiche della Terra, non saranno solo luoghi di grande attrattiva turistica; saranno anche dei laboratori a disposizione dei ricercatori di tutto il mondo. Delle palestre straordinarie per studi di botanica applicata e di scienze dell’alimentazione, al servizio di centri di ricerca internazionali.

E Milano con le sue filiere produttive (nel campo dell’agricoltura, dell’alimentazione, della ristorazione, del commercio, della ricerca) ne potrà ricavare grandi vantaggi economici. Per non parlare della Fiera, che potrebbe sfruttare la vicinanza con l’Orto Planetario per lanciare un grande Salone dell’Alimentare; e un “fuori salone” che – come accade per il Mobile – potrebbe coinvolgere la ristorazione regionale e multietnica di tutta Milano.

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