Dopo Firenze, è la volta di Milano. “Perdona loro perché non sanno quello che indossano”, c’è scritto sui manifesti di un imprenditore che si è messo al posto di Gesù Cristo sulla croce. Sotto: “…Dio salvi il made il Italy. Dedicato a tutti quelli che ci credono ancora”.
Ovviamente, come sempre capita quando si toccano a sproposito dei simboli che volenti o nolenti restano importanti per la vita di milioni di persone, si scatenano le polemiche. Del resto chi fa operazioni di questo tipo, cerca proprio lo scandalo come strumento sicuro per far parlare di sé. Come ha sottolineato il responsabile della pastorale sociale della diocesi fiorentina, dopo l’altro crocifisso ridotto a manichino che si visto alla presentazione di Pitti Uomo in corso a Firenze, è curioso che più si tentino di estromettere i segni della fede cattolica dai consessi pubblici, più se ne faccia uso per altri scopi. Il sacerdote fiorentino dice che questo suona come un’offesa: difficile non dargli ragione.
Ma oltre all’offesa c’è da registrare anche un paradosso: quando si deve lanciare un messaggio forte, che spacchi l’indifferenza che ogni messaggio ormai lascia dietro di sé, ecco che si ricorre al mezzo sicuro dell’uso choccante dell’iconografia religiosa. Così si centra sempre l’obiettivo di avere i riflettori puntati su di sé, come ben sa il primo ad aver sperimentato l’escamotage, cioè il furbissimo Oliviero Toscani (era sua la campagna dei Jeans Jesus, quelli degli slogan “chi mi ama mi segua” e “non avrai altro jeans al di fuori di me”). Quando nel 1973 riempì l’Italia con i suoi manifesti, Pasolini dalle colonne del Corriere della Sera scrisse un articolo drammatico e memorabile, intitolato “Il folle slogan dei jeans Jesus” (nessun appunto moralistico da parte di PPP. Scrisse: quello slogan è emblema «di un mondo che a noi, ultimi depositari di una visione molteplice, magmatica, religiosa e razionale della vita, appare come un mondo di morte»).
Certo, può fare ribrezzo questa riduzione di immagini che hanno secoli di storia e che sono ancora nel cuore di milioni di persone. Sa un po’ di svendita. Di uso gratuito da parte di persone che “non sanno quello che fanno”. Ma rispetto a quanto sperimentato da PPP in quel lontano 1973, va anche detto che qualcosa è cambiato. Chi pensava, con spirito compiaciuto ed iconoclasta di partecipare al festino finale di una tradizione con relativa spartizione delle spoglie, oggi deve ricredersi. A quasi 30 anni da quello slogan che aveva sconvolto Pasolini, in una società pur radicalmente laicizzata e secolarizzata, il crocefisso resta ancora il “segno” che più fa breccia nell’immaginario delle persone. Un “segno” che gli italiani, cattolici sbiaditi, continuano a sentire nient’affatto estraneo a se stessi.
Non voglio costruire teorie o interpretazioni sociologiche per spiegare questa persistenza. Io credo che la spiegazione sia in realtà meno complicata. L’errore è stato nel pensare che il cattolicesimo coincidesse con una visione morale o culturale, quando in realtà è un fatto e l’esperienza che questo fatto in modo imprevisto ha generato. Come tale vive a sorpresa nel cuore di tante persone, anche quando il contesto culturale sembra essere del tutto indifferente o ostile. Il cattolicesimo è una cosa semplice, diceva Péguy. Che quando guarda alle tante bizzarrie del nostro tempo a volte ne resta ferito, a volte le prende con ironia. Io suggerisco, laddove possibile, di far prevalere l’ironia.