«Milano è una metropoli culturalmente in declino, e trovo una scelta pretestuosa e snobistica, tipicamente newyorkese, averla anteposta alle grandi città d’arte come Venezia, Firenze o Roma». E’ una stroncatura senza appello quella di Stefano Zecchi, professore di Estetica, professore di Estetica all’Università di Milano e capogruppo della lista «Brunetta sindaco» a Venezia. Nonostante il New York Times abbia collocato Milano al quinto posto nella classifica delle 41 città al mondo degne di essere visitate, il professor Zecchi non è convinto.



«Uno dei caratteri fondamentali di Milano è la sua irrequietezza fattiva. La realtà non lascia in pace lo spirito milanese, che è sempre alla ricerca di una comprensione più profonda delle cose e, insieme, della realizzazione concreta di cose nuove. “Ideare” e “fare” sono per i milanesi due cose inscindibili», aveva commentato ieri sul Ilsussidiario.net lo scrittore Luca Doninelli. A stretto giro, in un’intervista per il nostro quotidiano on-line, la replica di Zecchi: «La tesi di Doninelli è accettabile, Milano è una città con un profondo desidero di nuove iniziative culturali. Ma questo non basta a farne un punto di riferimento di qualità sul piano artistico».



Professor Zecchi, perché non condivide la scelta del New York Times?

Perché ritengo difficilmente sostenibile la tesi secondo cui Milano sarebbe in grado di competere sul piano culturale con grandi città d’arte come Venezia, Firenze e Roma. Non sono in grado di comprendere le ragioni di questa decisione. Quella del New York Times è una valutazione a mio parere molto snobistica, abbastanza pretestuosa, decisamente newyorkese, e io francamente non sono d’accordo. Perché se ci sono città che in Italia vanno visitate, per un turista straniero che desidera capire il valore della civiltà e della cultura italiana, sono piuttosto Roma, Firenze o Venezia, ma non certo Milano.



Non le sembra che il New York Times abbia voluto giustamente valorizzare una città sottovalutata?

 

Sì, ma è un po’ come dire che, se io voglio conoscere l’arte italiana del ‘500, invece di Michelangelo e Raffaello vado a vedere un pittore minore. O come se, per studiare la filosofia classica tedesca, scegliessi un autore secondario invece di Hegel o Schelling. Certo, da milanese sono contento che Milano abbia conquistato gli onori della cronaca, ma non posso dire di essere d’accordo.

 

 

Dal punto di vista culturale, oggi Milano è in crescita o in declino?

 

Milano non è affatto una città in crescita. Il capoluogo lombardo fatica a mantenere le sue posizioni, conquistate in passato grazie a una grande tradizione scaligera, a dei registi teatrali di massimo livello e a delle mostre d’arte indimenticabili. Ma nel presente vedo una certa difficoltà il tentativo di conservarsi all’altezza di questi risultati. Uno sviluppo di quelle posizioni però manca del tutto.

 

 

E quali sono le cause di questa situazione?

 

In primo luogo, esistono problemi generali di amministrazione, di economia, di cambiamento del contesto sociale. E di mancanza di grandi personalità, come quelle che abbiamo visto a Milano in passato. Per 50 anni, dal 1947 al 1997, al Piccolo teatro abbiamo avuto un regista geniale come Giorgio Strehler, oggi invece c’è Luca Ronconi, la cui gestione è decisamente diversa. Per non parlare della Scala, dove che in passato è stata resa viva dalle grandi intuizioni di Claudio Abbado e di Riccardo Muti. Mentre oggi la Scala è costretta ad affidarsi soprattutto a delle star internazionali. Sono cambiati i tempi.

 

 

Lei però è stato assessore alla Cultura del Comune di Milano. Perché non è riuscito a invertire questa tendenza al declino?

 

Quella che le sto descrivendo è una percezione da cittadino, chiunque vive a Milano può fare il discorso che faccio io. E non si tratta di problemi che vanno risolti da un momento all’altro, ma che richiedono una lunga strategia di intervento. Io poi sono rimasto assessore per un tempo limitato. Ma comunque, ciò che è necessario è una visione che collochi la cultura al centro dell’intera attività di una città e di una nazione. Ed è su questo che probabilmente noi abbiamo dei problemi.

 

 

Secondo Doninelli, «la mostra/museo del design allestita alla triennale può fare da volano affinché i talenti che Milano produce non debbano andare all’estero per affermarsi». Ritiene che ciò sia possibile?

 

Dipende da situazione a situazione. Per quanto riguarda il design, vedremo se riuscirà a nascere un vero e proprio museo contemporaneo. Tutto questo infatti è molto legato alla realtà economica attuale. Per fare cultura, oltre alle idee, che sono fondamentali, ci vogliono anche i quattrini, che sono altrettanto fondamentali. E oggi forse a Milano le idee ci sono, ma mancano i finanziamenti e questo è un problema complessivo, generale.

 

 

Sempre per Doninelli, “il Museo del Novecento è uno spazio pensato a partire dalle opere che deve ospitare”, e non una scatola vuota in cui contano solo le poltrone. Condivide questo giudizio?

 

Sì, lo condivido senz’altro. Il Museo del Novecento è stato costruito intorno alle opere del Civico museo di arte contemporanea (Cimac). E questo ha consentito anche di dare maggiore dignità al «contenitore» al cui interno sono state collocate. Creando una sede prestigiosa, qual è il Museo del Novecento, per una distribuzione ordinata e all’altezza delle opere.

 

(Pietro Vernizzi)

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