Il riconoscimento che il New York Times ha voluto dare a Milano, indicandola come una tra le prime cinque città del mondo da visitare nel 2011, offre la possibilità di riflettere sullo “stato dell’arte” e della cultura nel capoluogo lombardo. «Uno dei caratteri fondamentali di Milano è la sua “irrequietezza fattiva”», scriveva qualche giorno fa Luca Doninelli aprendo il dibattito e chiedendosi quali fossero le ragioni per cui i giovani talenti artistici milanesi sono costretti oggi ad andare all’estero per potersi affermare nel mondo.



«Milano non è più un ambiente in cui un giovane artista, povero e innovativo, possa vivere – dice Giulio Sapelli a IlSussidiario.net -. Basta osservare il mercato dell’arte contemporanea: le grandi gallerie non ci sono più. È un peccato se si pensa a cos’erano Milano, Torino e Roma negli anni Settanta, a cos’è oggi Verona, o se si considera che la vicina Venezia con la sua Biennale è ancora il luogo in cui si scrive la narrazione dell’arte contemporanea. Milano non riesce a decollare e così l’arte italiana fatica a imporsi nel mondo».



Secondo lei per quale ragione?

Se questo accade è perché c’è una debolezza intrinseca nel nostro mercato dell’arte e nella nostra comunità artistica. Per constatare che le cose stanno così basta guardare il regime dei prezzi: Fontana costa infinitivamente meno di Hirst, Cattelan va abbastanza bene sul mercato, ma in realtà non ha nulla a che vedere con l’arte contemporanea perché non affonda le radici nella tradizione dei Manzoni e dei Dorazio… Le gallerie ancora esistenti non attraggono più talenti, di conseguenza qui non ci si può fermare. Per questo ho proposto alla Camera di Commercio di creare una Casa per i giovani artisti…

Ma come si spiega questa debolezza?



Purtroppo è finita la grande borghesia illuminata che comprava e collezionava, certamente in maniera diversa da come fanno i manager di oggi che acquistano per rivendere.
Un tempo si comprava un’opera per il piacere di ammirarla e non la si sarebbe mai venduta. Le collezioni Panza di Biumo e Junker nascevano così. La collezione Schwarz, invece, è finita in Israele senza che nessuno facesse qualcosa per evitarlo.

Sta auspicando un ritorno al mecenatismo?

Parlo di una cosa diversa. Milano arranca culturalmente perché è la città più disuguale al mondo. L’1% della popolazione di Milano possiede, infatti, il 40% della ricchezza. Il dato è ancor più drammatico per il fatto che questa minoranza è completamente separata dalla cultura. Un tempo era difficile essere ricchi senza essere almeno un po’ colti o appassionati. Oggi non è più così, ai nostri tempi non si pensa a farsi una cultura, si preferiscono i master… Ma uno che fa la Bocconi come fa a essere colto?

E da dove si riparte secondo lei? Il Museo del Novecento può essere l’“emblema della ripresa”?

Il Museo è una cosa buona, ma non si intravede ancora un progetto culturale chiaro alle sue spalle. La ripresa culturale di una città, ad ogni modo, non me la aspetterei dall’amministrazione comunale. Non sono i sindaci a fare la storia ed è il caso che Milano torni a farsi grande da sola. Non lo dico per sminuire il lavoro della Moratti, cha ha fatto la sua parte. Anzi, proprio per quello che dicevo prima il fatto che un ricco faccia il sindaco la ritengo una cosa meravigliosa…

Lei tira le orecchie quindi alla classe dirigente della città, al di là della politica?

Alla classe “dirigente” e alla classe “dominante”, visto che i ricchi non dirigono, ma dominano. “Sai quando questa città ha cominciato a decadere?”, mi disse il professor Giorgio Rumi, amico carissimo di cui sento la mancanza. “Da quando i borghesi hanno iniziato a fare ossessivamente i weekend fuori città”. Aveva ragione. Una volta i ricchi al sabato e alla domenica si occupavano della città. Massoni, cattolici o agnostici, cercavano tutti di fare qualcosa di utile per Milano. Oggi, ad esempio, servirebbero mercanti d’arte coraggiosi, intelligenti e tendenziosi.

Si spieghi meglio.

Coraggiosi, perché bisogna abbattere questa cappa insopportabile di conformismo per cui non si può dire nulla per paura di offendere Tizio o Caio. Su questo punto si consuma, infatti, il grande tradimento degli intellettuali milanesi, che ragionano soltanto “a somma zero”, anche se l’arte non può essere serva del potere, così come l’intelligenza.
Tendenziosi, perché devono seguire una linea di tendenza, credere in qualcuno che oggi magari nessuno considera e lanciarlo nel mondo, come hanno fatto i grandi.

Solo così eviteremo la “fuga dei cervelli” artistici?

Sì, anche se non drammatizzerei troppo. Sono convinto che Milano debba diventare sempre più un gateway, una porta da cui si entra e si esce, attraverso cui i nostri giovani possano passare per poi tornare. D’altra parte, noi tutti ci scopriamo milanesi quando usciamo da Milano. Solo a Sidney o a Buenos Aires, infatti, mi rendo sempre conto che questa città avrà anche qualche difetto, ma continua ad avere moltissime qualità…

(Carlo Melato)

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