«Milano è una città vivace dal punto di vista dell’offerta culturale, ma ha perso la sua identità. Il problema non è artistico, ma politico: la giunta Moratti non è stata in grado di svolgere un ruolo di regia». A sostenerlo è Carlo Fontana, sovrintendente del Teatro alla Scala dal 1990 al 2005, intervistato da IlSussidiario.net sulla classifica del New York Times che ha collocato Milano al quinto posto tra le città internazionali che vale la pena visitare. Per Fontana però, senatore dell’Ulivo dal 2006 al 2008, «Milano deve recuperare le sue radici culturali e politiche, il riformismo socialista e il cattolicesimo democratico, senza di cui anche le singole eccellenze come la Triennale rischiano di rimanere episodi isolati».



Fontana, condivide il giudizio positivo che viene da Oltreoceano?

Il giudizio positivo, più che condividerlo, mi fa molto piacere. E questo mi va bene perché molte volte i milanesi sono tentati di giocare al ribasso nel giudizio che danno di se stessi. Lasciandosi andare a malinconie retrospettive nei confronti di un passato certamente migliore, ma che non aiutano a vivere il presente nel modo migliore possibile.



Ma nello specifico che cosa funziona e che cosa non funziona a Milano dal punto di vista culturale?

Il problema è più politico che culturale. La politica culturale di una città la si fa quando l’amministrazione civica ha in mente un’idea della città e la comunica. Temo però che la giunta Moratti non abbia un’idea di questo tipo. Non dà l’dea di sapere in che direzione si va, quali sono gli elementi di sviluppo, dove si guarda, fino a che punto l’internazionalità è un punto fermo. Ci sono diverse iniziative culturali, anche molto buone, ma sembrano più degli eventi spot che il frutto di una riflessione e di un’idea radicata. Negli ultimi cinque anni è mancata una regia.



Ma lei crede davvero che siano i politici, e non gli artisti, a dover compiere questa sintesi?

 

Sì, perché un grande artista è sempre un grande egoista, ha sempre dentro di sé un fondo molto forte di solipsismo, pensa prima di tutto a se stesso. Al contrario spetta ai politici avere una sensibilità nei confronti della cultura e ricominciare a interessarsi realmente della cosa pubblica. Bisogna tornare a politici che siano al servizio delle istituzioni, e che non utilizzino le istituzioni per i loro interessi.

 

 

Ma secondo lei qual è l’identità che Milano dovrebbe recuperare?

 

Milano deve tenere presenti le sue radici culturali e politiche: il riformismo socialista e il cattolicesimo democratico. La nostra città è stata la culla di questi due movimenti, grazie a cui la città ha raggiunto i suoi esiti migliori. Ricordo la giunta socialista di Emilio Caldara dal 1914 al 1920, o i sindaci socialisti del Dopoguerra alleati prima con i Democratici cristiani e poi con i Comunisti miglioristi. Dobbiamo ispirarci a loro per recuperare la tradizione della nostra città.

 

 

Ma tornando al dibattito sulla cultura, Milano è più o meno viva rispetto agli anni ’60-70?

 

Certamente meno. Viviamo in un’epoca che è più povera di artisti. In questa città operava Giorgio Strehler, Claudio Abbado, ma anche geniali organizzatori come Paolo Grassi, Antonio Ghiringhelli, Remigio Paone, Carlo Ripa di Meana. Erano diverse le personalità di questo calibro, e questo rendeva la città più vivace. Da quando la Scala ha perso il maestro Riccardo Muti, l’ultimo grande artista all’altezza della tradizione di Milano che ci è rimasto è Luca Ronconi.

 

 

I talenti non ci sono più, o sono costretti ad andarsene all’estero?

 

Ovviamente il grande artista va dove trova le condizioni migliori di lavoro. Strehler aveva un radicamento al Piccolo teatro perché lo aveva fondato lui e non ha mai pensato di abbandonarlo. Ma in Francia per esempio ha trovato occasioni di lavoro e onori che il nostro Paese non gli ha mai concesso. La nuova sede del Piccolo teatro è stata inaugurata solo dopo che Strehler è morto, e con questo si è detto tutto.

 

 

E da dove nasce questo atteggiamento da parte di Milano?

 

C’è una distrazione di fondo, il nostro è un Paese molto viziato, che ha tutto, e che quindi tende sempre a fare passare in secondo piano tutto ciò che riguarda l’arte e la cultura. Non dimentichiamoci che, dal punto di vista delle iniziative culturali, Milano è meglio di Roma e di Venezia. Ha ragione quindi il New York Times, ma questo giudizio lusinghiero che viene dall’America non dovrebbe farci cessare dal riflettere su quello che potrebbe essere Milano e non è. Non per guardare al bicchiere mezzo vuoto, ma perché Milano ha una storia e una tradizione che la vuole migliore di quella che è oggi.

 

 

Guardiamo invece al bicchiere mezzo pieno…

 

In questo caso, dobbiamo parlare della vivacità con cui è gestita la Triennale, il mondo del design e il salone del mobile.

 

 

Dal punto di vista musicale, Milano è ancora un punto di riferimento internazionale?

 

Non so se lo sia, né se lo sia mai stata. Ma sicuramente a Milano l’offerta musicale è di alto livello. Da qui passano sovente grandi orchestre e ottimi solisti. C’è un giusto dovere di confronto con le esperienze che si fanno all’estero.

 

 

Il teatro alla Scala sta vivendo un momento di crisi?

 

La Scala non è altro che quello che è sempre stata: uno specchio di Milano. Nel corso degli ultimi decenni ci sono state molte «Scale» diverse, ma la Scala non migliora né peggiora, bensì risponde o corrisponde al momento storico in cui si trova a vivere. E oggi è uno specchio con luci e ombre, con un’ansia di internazionalizzazione che però può essere anche la spia di un grande provincialismo. Perché quest’ansia nasce dal fatto di perdere di vista la propria identità, che consiste nella tradizione del riformismo che appartiene alla storia di Milano.

 

(Pietro Vernizzi)

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