Il tragitto più suggestivo per una visione d’insieme della basilica di San Nazaro, soprattutto verso sera, quando la luce che cala fa risaltare il colore degli edifici sullo sfondo del cielo, è quello che porta da via Festa del Perdono a via Pantano.
Si costeggiano infatti in un ambiente tranquillo e verde gli antichi edifici della Ca’ Granda, l’ospedale al quale i milanesi sono legati da affetto secolare. Ciò che rimane dell’antico sogno di Sforzinda, commissionata dai signori di Milano a Filarete come città ideale è sufficiente a lasciar immaginare la bellezza di quel progetto, che riprende gli elementi della tradizione lombarda e li ingentilisce con le nuove proporzioni dettate dall’Umanesimo.
Quasi senza soluzione di continuità sulla costruzione che ora ospita l’università si innesta la mole articolata della zona absidale di San Nazaro: il tiburio con il suo semplice ed elegante cromatismo, le absidi aperte ciascuna da tre ampie monofore, i contrafforti, il campanile e, di scorcio, la cappella Trivulzio.
All’impressione di armonia suggerita dall’edificio di Filarete si sostituisce quella di solidità comunicata dalla chiesa, alla cui facciata si accede attraverso lo stretto vicolo di santa Caterina. E qui ci si ritrova ancora in un rinascimento che il Bramantino ha voluto ispirato ai sarcofagi paleocristiani, in armonia con l’antichità della basilica.
La cappella Trivulzio con la sua spinta verticale e la sua spazialità quasi senza tempo immette nella chiesa vera e propria. Si scendono pochi gradini e ci si trova immersi nella pace silenziosa della navata di san Nazaro, scandita da due ampie campate a crociera costolonata, al fondo delle quali si inseriscono i due transetti e l’abside. Le pareti bianche sono profilate in cotto.
Percorrendo la navata sono visibili tavole di diverse epoche e lacerti di affreschi. A sinistra sono stati lasciati in evidenza mattoni a spiga, opus spicatum, risalente al quarto secolo, testimonianza delle persistenze paleocristiane presenti anche altrove nella basilica, come i quattro pilastri di incrocio tra la navata e il transetto.
Alla base di quello di sinistra, all’inizio dell’abside maggiore, si trova sopra un sarcofago l’epigrafe ambrosiana, in gran parte ricostruita, dettata dal santo per la fondazione della chiesa. Il testo latino è composto in distici elegiaci, il metro classico usato anche in epoca cristiana per gli epitaffi. Tradotto in italiano dice:
Fondò Ambrogio il tempio e lo consacrò al Signore
Col nome apostolico col dono con le reliquie
Forma di croce è il tempio, il tempio è la vittoria di Cristo
La sacra immagine trionfale segna il luogo
Nel capo del tempio è Nazaro di alma vita
È sublime il suolo per le spoglie del martire.
Dove la croce il sacrato corpo innalza a cerchio riflesso:
Questo è capo al tempio e dimora a Nazaro
Il quale vincitore per la sua pietà fomenta l’eterna quiete.
A chi fu palma la croce, la croce è anche seno.
Non abbiamo bisogno di queste parole per sapere quale grande poeta fu sant’Ambrogio, autore di inni ancor oggi vivi nella liturgia della Chiesa intera. Ma certo la spiegazione qui adombrata della scelta della pianta a croce greca, del tutto nuova allora in Europa, e l’ultimo verso che unisce il martirio al riposo nella comunione dei santi hanno una forza evocativa che le recenti persecuzioni dei cristiani nel mondo rendono ancora più attuale.
Ambrogio volle la basilica Romana sulla strada che accoglieva a Milano chi proveniva da Roma e la consacrò nel 386 con la deposizione delle reliquie degli apostoli Giovanni, Andrea e Tommaso, che aveva ricevuto da papa Damaso e dei resti del martire Nazaro, rinvenuti insieme a quelli di Celso nel cimitero poco distante.
L’intento era anche quello di ribadire la vittoria della croce sulla potenza di Roma. Nei primi secoli della sua vita la chiesa divenne ambito luogo di sepoltura di molti vescovi milanesi. Molti santi sostarono in preghiera nella sua pacificante penombra: san Carlo, san Camillo de Lellis, sant’Antonio Maria Zaccaria, san Luigi Gonzaga, san Francesco di Sales e in epoca più recente essa fu cara a Antonio Rosmini, Vincenza Gerosa, Madre Cabrini, don Orione, ai cardinali Ferrari e Schuster.