«Negli ospedali lombardi non cambierà nulla perché la prassi è ormai consolidata»: questo il commento di Roberto Formigoni alla sentenza con cui il Tar lombardo ha dichiarato illegittime le linee guida regionali sull’aborto, emanate due anni fa.

Il governatore ha ragione: nell’atto di indirizzo, l’amministrazione non faceva altro che estendere a tutta la Lombardia alcune modalità di applicazione della legge 194 sull’aborto, stabilite in base a criteri condivisi dalla comunità scientifica e medica, e già adottati fin dal settembre del 2004 dalla clinica milanese Mangiagalli, l’ospedale simbolo della battaglia politica per legalizzare l’aborto in Italia, che sicuramente non può essere sospettato di voler boicottare la 194.



Nelle linee guida lombarde si indicavano procedure e criteri di accesso all’aborto tardivo, cioè quello a gravidanza avanzata, oltre i novanta giorni. A riguardo la legge è chiara: non si può abortire se c’è possibilità di vita autonoma del feto, e se la donna rischiasse la vita continuando la gravidanza, i medici dovrebbero indurre il parto e fare di tutto per salvare mamma e neonato.



La legge quindi non individua una data precisa oltre la quale l’aborto è vietato, ma spiega solamente il criterio da seguire per stabilirla.

Grazie ai progressi della medicina, ai nostri giorni delle 40 settimane necessarie per portare a termine una gravidanza, ne bastano 22 perché ci sia "possibilità di vita autonoma del feto", cioè perché neonati fortemente prematuri abbiano qualche opportunità di vivere al di fuori dell’utero della loro mamma.

Si parla di "possibilità" e non di "probabilità": significa che se anche solo un bambino a un certo stadio di avanzamento della gravidanza è nato e ce l’ha fatta, allora una possibilità c’è anche per altri alla stessa età.



Gli aborti tardivi sono parti provocati precocemente, che di solito esitano in neonati morti, ma non sempre: la necessità di autoregolamentazione è nata dagli stessi medici, che talvolta si trovavano a soccorrere neonati che sopravvivono all’aborto. «Fermarsi prima è un atto di umanità»: ha commentato a proposito Basilio Tiso, direttore della Mangiagalli, che su quei "paletti" individuati dai medici stessi – aborto vietato per gravidanze superiori a 22 settimane e tre giorni – ha messo la sua firma sei anni fa, e che nel 2008 l?amministrazione Formigoni ha esteso a tutto il territorio.

Ma secondo il Tar della Lombardia la regione non può dare indicazioni in tal senso, perché si tratta dell’applicazione di una legge nazionale, la 194, su cui non ci può essere discrezionalità locale: secondo il tribunale amministrativo quindi le linee guida regionali sono illegittime (ma al tempo stesso i contenuti sono legittimamente adottati dai principali ospedali del territorio).

Eppure sulla pillola abortiva Ru486 è successo il contrario: l’Emilia Romagna ha emanato linee guida regionali per l’accesso all"aborto farmacologico" addirittura prima che il prodotto venisse commercializzato in Italia. Dopo l’autorizzazione al commercio, poi, ha confermato la procedura di aborto con la Ru486 mediante day hospital, e non con ricovero ordinario, in contrasto con le chiare indicazioni di tre pareri del Consiglio Superiore di Sanità e delle linee guida ministeriali.

La legge da applicare è sempre la 194, ma per le due regioni valgono regole diverse: l’Emilia Romagna può pronunciarsi sull’aborto farmacologico in autonomia, mentre la Lombardia non può farlo per gli aborti tardivi.

Viene da pensare che quando la legge viene letta e applicata in chiave abortista, allora i pronunciamenti regionali vanno bene; in caso contrario, a sollecitare "opportunamente" la magistratura ci pensano i soliti noti. Il team degli avvocati che ha sostenuto il contenzioso contro la regione, infatti, è "dedicato" a certi argomenti: Vittorio Angiolini, legale della famiglia Englaro, cercò invano di obbligare l’amministrazione lombarda a trovare una struttura in cui applicare la sentenza per sospendere la nutrizione di Eluana.

Il Tar lombardo anche quella volta gli diede ragione, ma nessuno in regione si rese disponibile. Marilisa D’Amico e Ileana Alesso, invece, fanno da tempo una dura battaglia contro la legge 40, quella che regola la procreazione medicalmente assistita. Fanno parte, ad esempio, del collegio degli avvocati di due coniugi siciliani che hanno fatto ricorso per ottenere la fecondazione eterologa, vietata dalla legge e per questo adesso stiamo aspettando l’ennesimo pronunciamento della Corte Costituzionale sulla 40.

Adesso è necessario che la politica intervenga con decisione, per evitare che siano solamente i tribunali a stabilire la corretta applicazione di leggi che riguardano questioni tanto importanti e gravi come quella dell’aborto. Solo un intervento del parlamento e della Conferenza Stato-regioni può garantire l’applicazione uniforme delle leggi sul territorio nazionale, soprattutto nelle parti dedicate al rispetto e alla tutela del diritto alla vita: che piaccia o no, ancora una volta, per i cosiddetti temi "eticamente sensibili", la politica è chiamata a fare la sua parte.