Andare per vetrine nei giorni frenetici precedenti il Natale e rimandare gli acquisti per sé di qualche giorno, giusto fino all’Epifania, quando le scarpe che stavamo cercando da un anno costeranno almeno il 30% in meno e il maglioncino di cachemire di cui non abbiamo bisogno ma che ci piace proprio avrà raggiunto un prezzo di cui non dovremo vergognarci…
Questa è la strategia più comune di chi attende i saldi per fare i propri acquisti, soprattutto in tempo di crisi. Negli ultimi anni, tra l’altro, non siamo neppure disincentivati dal rischio di non trovare più la misura giusta, il colore preferito, il modello che avevamo desiderato. I negozi, infatti, arrivano al fatidico giorno di inizio delle svendite con le vetrine e gli scaffali ancora traboccanti di merce e in molti casi è solo con i ribassi dei saldi che i consumatori hanno l’impressione non tanto di fare degli affari, come accadeva fino ad alcuni anni fa, quanto di acquistare i prodotti a un rapporto qualità-prezzo accettabile.
Ma è sufficiente una spiegazione basata sulla convenienza economica? Se guardiamo a come si sono trasformate le pratiche di acquisto e consumo negli ultimi dieci anni, certamente no. Oltre ai risultati delle ricerche sociologiche e di mercato sono i nuovi canali della distribuzione a suggerirci che il fenomeno genericamente definito dei saldi è una realtà non soltanto economica.
Consideriamo in particolare la diffusione crescente di outlet e spacci aziendali, la nascita e il successo di quei grandi centri commerciali, veri e propri villaggi non troppo lontani dalle grandi città, costituiti solo di punti vendita a prezzi scontati dei grandi marchi della moda: questi nuovi canali distributivi sono l’incarnazione lunga tutto l’anno dei saldi stagionali.
Ci raccontano una strategia distributiva che fa leva sul desiderio dei consumatori di andare in cerca del prodotto migliore per loro, disposti a procrastinare nel tempo la scelta del bene preferito o a fare un viaggio verso i villaggi dello shopping, dove la promessa della soddisfazione dei propri desideri è subordinata al lavoro che le persone sono disposte a compiere, rimandando l’acquisto, cercando tra i mucchi di merce in offerta, affrontando un viaggio.
Nella vita quotidiana sembra non essere più così: nelle vie delle nostre città i negozi si susseguono senza soluzione di continuità, la possibilità ininterrotta di acquistare qualsiasi cosa ci venga in mente in una scelta infinita di marchi annulla teoricamente ogni tipo di distanza e di attesa tra noi e le merci.
La prospettiva di aspettare il giorno dei saldi, o di intraprendere un viaggio per raggiungere un luogo dove i nostri desideri troveranno soddisfazione a un prezzo migliore, reintroduce nelle nostre pratiche di consumo, la dimensione e l’esperienza del desiderio, che stanno alla base del consumismo moderno: la vetrina e la pubblicità innescano il desiderio del prodotto, l’attesa di poterlo acquistare ne accresce il valore, l’appropriazione e l’uso lo riconsegnano alla vita quotidiana, sfatandone la promessa implicita che esso possa migliorare la nostra vita.
La delusione che ne segue innesca un nuovo desiderio che subirà lo stesso destino. Il fenomeno dei saldi è pienamente invischiato in questo paradosso: da un lato, infatti, la maggiore accessibilità economica dei prodotti riduce la distanza dei consumatori dagli oggetti dei loro desideri; dall’altro, però, l’attesa del giorno fatidico o la ricerca del punto vendita giusto o la scommessa sul fatto che il prodotto di cui siamo in cerca sarà ancora disponibile con i saldi, incrementano l’attesa e il desiderio, in un contesto in cui i negozi pieni di merce sembrano negarne il senso. L’attesa e la ricerca, la scommessa, ricollocano i beni di consumo a una distanza che ne alimenta il valore, in un processo apparentemente infinito.
Negli ultimi anni, però, l’osservatore esterno, di fronte al prolungarsi della stagione dei saldi, con i negozi che rimangono spesso pieni di merci, si chiede se esso non sia prossimo alla sua naturale conclusione.