I feroci tagli lineari, operati dal governo hanno inciso nella viva carne dell’azione della Giunta Pisapia. Anche le risorse per la Cultura sono state ridotte: “Bambole non c’è una lira” ripete Tabacci, tetragono ad ogni richiesta assessorile. Sembrerebbe che per la Cultura si debba semplicemente “saltare un giro”, tanto, si dice, è superflua rispetto ad altri bisogni essenziali. Chi è senza casa o privo di diritti sociali di cittadinanza non è alieno a queste considerazioni (chi non lo sarebbe), anche se è vero che la Cultura oggi è potente fattore di sviluppo economico: la Bellezza del Paesaggio, naturale,  urbano e culturale, è una delle principali risorse di cui dispone il Paese.



Rimandare, ridurre, tagliare, questo sarebbe il riflesso condizionato di una visione però solo ragionieristica, e certo Stefano Boeri non sembra arrendersi al ruolo di esecutore testamentario di un lascito senza beneficio d’inventario. Per lui, come per tutti, la crisi non è solo vincolo ma sfida, opportunità, stimolo a rivedere i punti di vista, cambiare angolazione, ridefinire la prospettiva: in una parola, tanto cara verbalmente alla sinistra quanto ostica alla sua prassi, produrre innovazione. Se al taglio dei budget pubblici la sinistra si illude di rispondere solo con il mantra “vorremmo tanto spendere, ma non si può per colpa di Berlusconi”, si condanna a deludere di nuovo, e senza rimedio, attese e speranze.



Sul fronte della cultura cittadina, il paradosso della vicenda è il contrasto stridente tra un’azione amministrativa priva di risorse ed una città dotata di beni sterminati in termini finanziari, culturali e sociali. Questa città, che con i soldi propri ha fatto il Duomo, il maggior bene culturale cittadino, “chiede” i soldi del pubblico per fare cultura?

E’ questa davvero l’attesa, o sono presenti anche altre aspettative, altre domande, altre disponibilità, altre risorse? E quale Visione della relazione pubblico – privato può sciogliere l’incantesimo dei bilanci blindati, del rubinetto pubblico sgocciolante, mobilitando le risorse che la città genera ma che giacciono troppo spesso come  passive, sconnesse, improduttive?



Un esempio paradigmatico ci è venuto in questi giorni, ma forse pochi ne hanno parlato, dal Concerto di Musica Sacra, “La Bellezza salverà il Mondo.”, nel quadro dell’Anno Incrociato Italia Russia 2011. Ospiti della meravigliosa Basilica di Santa Maria delle Grazie, le tradizioni musicali di entrambi i paesi si sono scambiate alcune delle più intense composizioni di Musica Sacra, da Rachmaninoff a Verdi, interpretate dall’Orchestra Sinfonica “Accademia di Musica Sacra”, diretta dall’eccellente e leonardesco Diego Montrone, fino al “Canto delle Ascensioni”, scritto dal Metropolita Hilarion Alfeev (religioso ai vertici della Chiesa ortodossa russa) ed interpretato dal Coro Sinodale di Mosca.

Madrina dell’Evento Svetlana Medvedeva, Presidente della “Fondazione per le Iniziative sociali e culturali, consorte del Presidente della Russia odierna. Una serata splendida, un prezioso incontro, un’alta testimonianza culturale.

Quanto sarà costata questa cosa? O meglio quanto sarebbe costata al Comune di Milano se l’avesse progettata, promossa e realizzata?  Certamente centinaia di migliaia di euro e non si sarebbe quindi fatta.  E quanto è costata effettivamente? Non abbiamo un rendiconto dettagliato, ma ci si dice molto, molto meno, e per questo si è fatta.

I costi sono stati in parte sostenuti dagli ospiti russi, in parte si è fatto del volontariato di alto livello, artistico e manageriale, la Basilica è costata quasi nulla, ma il suo contributo allo spessore culturale ed al godimento spirituale è stato altissimo, in parte sono intervenuti cortesi sponsor. Allora è vero, allora è possibile progettare e realizzare eventi culturali di alto livello, senza soldi pubblici.
E se ci chiediamo il come ed il perché, troviamo risposta in una cultura della “cultura” fondata sul volontariato di qualità, sull’intreccio delle relazioni, e pur, nella cornice istituzionale che l’ha ospitata, in un protagonismo sociale che cerca le sue strade per manifestarsi, senza chiedere unicamente soldi ma piuttosto quadri di riferimento, attivazioni di reti, concorso di risorse preziose ancorchè gratuite, in cui potersi valorizzare. Il tema vero è quindi l’attivazione di circuiti relazionali, di reti di risorse, di condi-visione di prospettive, in cui non solo chiedere ma soprattutto dare (Scola e Tettamanzi, assieme, ci ricordano la gratuità del dono come dimensione essenziale dell’identità culturale). Cambiare prospettiva, innovare il senso dell’azione pubblica, pensare a nuovi modelli di governance, trasformare le aspettative degli attori del territorio, economici, sociali, culturali, individuali e collettivi.

Certo, tornando nel pensiero alla secolare edificazione del Duomo, della sua Fabbrica, come non cogliere la distanza tra la logica del dono praticata da ciascun milanese (ciabattino e nobile, notabile e prostituta) e l’osceno spettacolo offerto dal patron della moda milanese che, scuotendo sul sagrato la scodella ipergriffata, pretendeva la mancia pubblica, i 100.000 euro “promessi”. Il rappresentante di un business multimiliardario, giustamente orgoglioso di rappresentare il 25% del PIL italiano, pietiva quattro soldi ad un pubblico a cui piuttosto dovrebbe preoccuparsi di restituire, o meglio con cui condividere il modo, gli spazi e le occasioni, per valorizzare la Moda come produzione culturale distintiva della città.

Si chiede alle imprese non tanto un contributo finanziario, che non è poco, quanto piuttosto una visione più matura della relazione che le connette al territorio, nella comprensione che la loro pratica produttiva non solo consuma beni comuni, ma li trasforma e  rielabora come valori distintivi del contesto culturale, della produzione di “senso” e di identità dei luoghi e quindi, in ultima analisi, come fattore competitivo di lunga lena.

Si chiede alle persone, all’intelligenza collettiva diffusa, di rendere disponibili le risorse tempo e conoscenza ed “amore”, traducendo “partecipazione” politica nella partecipazione alla produzione e diffusione dei beni culturali.

Si chiede alle mille e una aggregazioni sociali che animano il tessuto associativo di allargare la visione, di  fare rete, di condividere risorse, lasciando alle spalle gelosie e solipsismi.

Si chiede soprattutto alla pubblica amministrazione di reimmaginare il proprio ruolo, di oltrepassare le tardive funzioni di distributore di contributi e/o di erogatore in prima persona di servizi, per proiettarsi verso il profilo alto di regista di politiche costruite aprendo spazi,  indicando temi e creando opportunità di cooperazione.

E’ sussidiarietà? E’ liberazione delle risorse sociali compresse? E’ fuoriuscita dal ruolo di ufficiale pagatore?

E’ tutto questo, è soprattutto  una prospettiva fondata sul superamento di una visione ristretta e passivizzante del pubblico, tanto cara a certa parte della sinistra, che crede di diffidare del privato, ma in realtà non crede alla potenza del sociale, alla sua autonomia culturale e capacità di liberazione.