“Pensare di rispondere ai problemi della mobilità ed in particolare dei pendolari aumentando le dimensioni delle aziende ed incrementando l’offerta di treni a discapito dei servizi su gomma sembra tanto la classica scorciatoia all’italiana che in realtà non solo non risolve il problema , ma probabilmente lo accentua. Se l’obiettivo è un’offerta integrata di servizi ed un uso più efficiente ed efficace delle risorse la risposta che ha dimostrato di funzionare in Europa è quella di una pianificazione/programmazione forte e l’apertura del mercato a dinamiche concorrenziali, facendo fare a ciascuno il suo di mestiere e non quello degli altri”. E’ la provocazione di Marco Piuri, Ad per l’Italia e l’Iberia di Arriva-DB ed ex CEO del gruppo Ferrovienord. In un momento in cui si discute di un’eventuale fusione tra ATM e Trenord, la società nata a sua volta dall’unione tra Lenord e Trenitalia in Lombardia, il manager spiega che la vera integrazione del sistema è opportuno che parta dalla “testa” e non dai “piedi”.



Come valuta l’ipotesi di fusione tra Trenord e Atm?

Non conosco i contenuti del progetto, e quindi non posso esprimermi nello specifico. Osservo però che se l’obiettivo è quello dell’integrazione/razionalizzazione dei servizi e di un incremento dell’efficienza non credo che la risposta venga da questo tipo di soluzioni.



L’obiettivo da raggiungere non è quindi quello di una maggiore integrazione?

A me pare che il proverbio milanese “ofelé fa el to mestee” sia il più appropriato per spiegare quale è a mio avviso l’approccio più adeguato. L’integrazione dei servizi deve essere assicurata dalla loro programmazione. E’ il regolatore del sistema che deve definire standard e caratteristiche dell’offerta, garantendo la disponibilità di reti ed infrastrutture adeguate. In Italia invece molto spesso, e onestamente non solo in Lombardia, si compie un errore strategico ed industriale enorme: si fanno coincidere tre livelli del sistema che invece devono rimanere ben distinti: il piano della pianificazione/programmazione, la responsabilità dell’affidamento dei servizi (il mestiere della stazione appaltante per intenderci) e la gestione operativa dell’attività. La prima è propria dell’istituzione/regolatore, e la dimensione regionale integrata con gli ambiti urbani è probabilmente la più adeguata. La seconda può essere in capo a soggetti giuridici differenti (enti locali, agenzie…) e deve guardare alla possibile ottimizzazione delle reti di servizi. Il terzo è quello dell’operatore, del mercato sarei tentato di dire se questa parola in Italia avesse un senso, che è chiamato ad organizzare i fattori della produzione del servizio.



Questa distinzione in Italia è praticata?

Direi in modo “pasticciato” e confuso. Intanto in Italia il problema principale che ha fino ad oggi impedito una effettiva liberalizzazione del sistema del trasporto pubblico è rappresentato da un evidente conflitto d’interesse: molto spesso la stazione appaltante (regione, comune provincia) è anche “giocatore”, nel senso che è azionista, spesso totalitario, di una delle aziende chiamate a competere per l’assegnazione del servizio. Credo che non debba dilungarmi nello spiegare la distorsione che ciò genera nel sistema anche perché è sotto gli occhi di tutti (naturalmente di chi la vuole vedere). In secondo luogo, ed è il caso mi pare di poter dire, di ATM/Trenord, ma anche dell’Emilia Romagna o della Toscana per citare altri esempi, il regolatore abdica alla sua responsabilità di programmatore delegandola all’operatore: è l’azienda che è chiamata a razionalizzare ed integrare il sistema di trasporto. Ma perché questo sia possibile devo rendere l’azienda più grande possibile, perché deve coincidere con l’ambito della programmazione. Come faccio ad integrare i servizi dell’area milanese? La risposta del progetto ATM/Trenord sembra appunto quella che dice: creo un’azienda grande come l’area interessata e l’azienda provvederà a razionalizzare il sistema. Qui sta un errore di natura industriale: la dimensione ottimale dal punto di vista operativo, cioè quella che permette una ottimizzazione nell’uso delle risorse è di 8-10 milioni di bus per km nella gomma e di 4-6 milioni di treni per km nel ferro. Ciò significa che non è vero che più l’azienda cresce come dimensioni e più diventa efficiente. Anzi se uno avesse l’onestà intellettuale di guardare la realtà è vero esattamente il contrario. La sensazione è però che le istituzioni pubbliche locali guardino al problema più da azionisti che da enti regolatori/programmatori. E da azionisti più un’azienda è grande …

 

Tradotto per i non addetti ai lavori, che cosa significa?

Significa che quello che occorre per ridare spinta e sviluppo a questo settore è una rinnovata capacità di programmazione e regolazione ed il coraggio di aprire davvero ad un processo di liberalizzazione, dove i ruoli è opportuno siano ben distinti ed in capo a soggetti diversi. Vede, quando partecipo a dibattiti e discussioni di questo tipo sembra che l’unico modello affascinante per il nostro paese sia quello di Parigi, dove il servizio di trasporto è gestito in monopolio assoluto da un ’ente pubblico, e cioè RATP.

 

Tutto quanto accade negli altri paesi è invece irrilevante. Per esempio che il governo olandese sta valutando di dividere il servizio ferroviario in 8-10 bacini di 6-7 milioni di treni per km da affidare tramite gara. Oppure che a Londra il servizio della metropolitana è gestito da un’azienda pubblica mentre treni e servizi di superficie sono affidati ad una pluralità di operatori. E qualcuno ritiene che la qualità del servizio pubblico a Londra sia scadente e non integrato? Certo occorre onestà intellettuale. Per esempio smetterla di replicare la leggenda nera della terribile situazione del servizio di trasporto pubblico nel Regno Unito.

 

Io sfido a comparare il servizio regionale di trasporto ferroviario del Galles con quello delle regioni italiane in termini di qualità, sicurezza, costi per la collettività. O la situazione dei servizi delle grandi città italiane con quelle di Madrid o Stoccolma. In ogni caso in tutti questi modello il regolatore fa il regolatore e l’operatore, senza confusione o delega di funzioni e ruoli. E mi permetta: chissà perché nessuno degli studiosi tanto critici con il modello anglosassone ci spiega i numeri ed i conti del sistema francese…. Un’ulteriore osservazione: la qualità del servizio cresce se è effettivamente integrato. Anche qui oggi assistiamo ad una corrente di pensiero che ritiene che il problema della mobilità si risolva mettendo più treni in servizio e tagliando le linee di autobus.

 

E’ quello che sta accadendo anche a causa delle manovre del governo e dei tagli alle regioni, probabilmente per la grande capacità di lobby del gruppo FS combinato con il fatto che le regioni, che gestiscono le risorse del settore, sono spesso azioniste di imprese ferroviarie. Ma l’integrazione dei servizi richiede appunto più tipologie di servizi da integrare. Il ferro ha evidenti vantaggi in termini di potenziali tempi di percorrenza e qualità del servizio. Ma è più costoso, molto più costoso della gomma e molto più rigido. Occorre appunto integrare. Per esempio avendo il coraggio di introdurre rotture di carico (gomma + ferro) su alcune direttrici con il vantaggio di ridurre e regolarizzare i tempi di viaggio per il passeggero e risparmiare risorse pubbliche.

 

Che cosa ci può insegnare da questo punto di vista l’esperienza straniera?

Guardiamo a come sono fatti i grandi gruppi europei. Hanno in genere una holding con tutte le tipiche funzioni corporate (la finanza, le risorse umane, l’IT, gli acquisti …) e sono quindi i grado di generare benefici in termini di strategia, potere contrattuale, risorse finanziarie, innovazione etc.. Queste holding controllano/partecipano una pluralità di medie-piccole aziende operative fortemente radicate sul territorio e chiamate ad ottimizzare il servizio (qualità/costi). In Italia il gruppo Arriva è composto da dieci società: l’ultimo dei pensieri è avviare processi di fusione delle realtà operative E questo modello permette tra l’altro di dar vita ad interessanti e positive esperienze di joint-venture con soggetti locali, come nel caso di Trieste, Udine, Como, Cremona.

 

Ma il suo ragionamento a quali conseguenze porta dal punto di vista dei bilanci pubblici?

 

A conseguenze positive. Aprire alla liberalizzazione significa far venire meno posizioni di rendita. Tutti diventano necessariamente più efficienti. Anche in questo caso basterebbe avere la lealtà di guardare la realtà: dove sistemi regolati si sono aperti alla concorrenza la qualità del servizio è aumentata, le risorse pubbliche richieste sono diminuite. C’è un’ottima pubblicazione del Mulino che in poche pagine tratteggia il quadro del trasporto pubblico ed evidenzia come in questo settore non esistono economie di scala operative oltre una certa dimensione e dove operatori “industriali” sono mediamente più efficienti. Fa inoltre vedere come in questo settore da più di cento anni il disavanzo è sempre stato generato dalle aziende di più grandi dimensioni. Certo è necessario che ciascuno faccia il suo, meglio che nel passato. Occorre definire davvero i servizi minimi, rivedere le reti, adottare comportamenti flessibili nella gestione dei contratti così da adeguare l’offerta agli effettivi flussi della domanda.

 

Lei è favorevole alla concorrenza nel settore dei trasporti?

 

Io credo che sia arrivato finalmente il momento dove la politica deve decidere. Deve decidere se considerare il trasporto pubblico un servizio che fa parte del sistema di welfare, oppure un settore industriale, regolato ma industriale, Ed agire di conseguenza in modo coerente rispetto alla scelta fatta. Deve decidere se vuole fare l’azionista oppure se per garantire il miglior servizio ai cittadini è più opportuno che faccia il regolatore affidando ad altri la responsabilità del servizio. Anche in questo caso agendo di conseguenza. E come ho già detto se il tema è: migliori servizi con un uso più efficiente delle risorse la liberalizzazione è la strada che storicamente ha portato benefici. C’è un’occasione importante pur in questo quadro economico e sociale drammatico: la possibilità di introdurre i costi standard. Al di là dei tecnicismi l’introduzione di questo strumento avrebbe il merito di richiamare tutti al principio di responsabilità. Se un ente o un’azienda , per i motivi più diversi, non risulta allineata ai costi standard, ne paga direttamente le conseguenze, smettendola di scaricarle sulla collettività. Ma anche di questo si fa fatica a parlare …

 

(Pietro Vernizzi)