Siccome non ha mai lavorato in vita sua, ha ritenuto la prigionia preferibile alla libertà. Così ha ragionato Patrizia Reggiani, condannata a 26 anni per aver ucciso l’ex marito, Maurizio Gucci,  nello spiegare ai magistrati di sorveglianza di Milano perché non ha voluto godere del regime di semilibertà. Che, per legge, implica lo svolgimento di un’attività lavorativa. In pratica, di giorno si lavora, la notte si rientra in galera. La Reggiani, che si trova nel carcere di San Vittore, a Milano, dal 1997 (l’omicidio è avvenuto nel 1995), ha già trascorso in cella metà degli anni che la separano dalla libertà definitiva. Ma predilige la quotidianità che si è creata tra le mura della prigione. Per questo non ha mai fatto istanza per ottenere quello che è divenuto un suo diritto. Cura le sue piante e si occupa di un furetto. Questo, pare che le basti. A quanto ha precisato il suo legale, Danilo Buongiorno, tuttavia, «ormai da tempo usufruisce dei permessi premio» per recarsi a trovare la madre quasi ogni settimana. Abbiamo chiesto a Maria Laura Fadda di ipotizzare quale dinamica mentale può indurre a simili decisioni. E di parlarci del carcere di San Vittore che, in quanto magistrato del Tribunale di sorveglianza di Milano, conosce molto bene.



Quali potrebbero essere i motivi che hanno spinto la Reggiani a propendere verso una simile decisione?

Lei è in carcere dal ’97. Ha espiato, quindi, 14 anni di pena. Ma 14 anni di carcere sono tanti, segnano chiunque. Rendono inetti ad essere in grado, nella vita concreta, di svolgere le attività di tutti i giorni. Tolgono le capacità di autonomia e di conoscenza di come si è evoluta la vita nella società. Per cui, spesso, da parte dei detenuti si è riscontrata la paura di uscire.



Cosa accade, esattamente, nelle carceri, perché una volta fuori gli ex detenuti si ritrovino nella situazione che lei ha descritto?

Le celle, salvo alcune ore al giorno, sono chiuse. Per fare qualunque cosa – come parlare col cappellano, recarsi in infermeria, o spostarsi da un piano all’altro – è necessario essere accompagnati. Non c’è alcun tipo di attività autodeterminata. Il che, può provocare nelle persone una sorta di regressione, nota come sindrome da prigionizzazione. Che colpisce a prescindere dall’età o dal grado di istruzione, dal livello sociale e culturale.

Eppure, la Reggiani, quasi tutte le settimane usufruisce dei permessi che le consentono di andare a trovare la madre…



Esatto. Usufruisce dei permessi dal 2005. Esce dal carcere con una certa frequenza. Vede la madre e – immagino – anche le due figlie. E’ presumibile, quindi, che da un punto di vista affettivo si senta appagata. Il fatto di iniziare ex novo un’attività che non aveva mai svolto, tuttavia, anche da libera può averla spaventa. Ciascuno, del resto, si porta dietro la sua storia e reagisce alle situazioni in maniera diversa.

 

Quali sono le principali criticità di San Vittore?

 

E’ un carcere che risente dei tanti anni che ha sulle spalle. E non può offrire, come quelli più moderni, spazi più esterni più ampi o verdi. Risente di limiti strutturali. E’ poco arioso e scarsamente luminoso, perché realizzato con finestre piccole. Ha muri spessi e celle piccole. Ed è parecchio sovraffollato. Vi risiede un numero di detenuti doppio rispetto alla presenza tollerabile. Questo, a carcere agibile. Ma bisogna considerare che due reparti sono stati chiusi, perché stavano per crollare. Capita, inoltre, che i letti a castello a due o tre piani occupino anche la parete dove c’è la finestra. Per cui, d’estate viene tenuta aperta, d’inverno chiusa – a mezz’asta non è possibile -, con i relativi problemi di igiene.   

 

Trova che vi siano anche aspetti positivi?

 

Storicamente, le persone che lavorano al suo interno sono dotate di grande professionalità. Mi riferisco agli agenti di polizia penitenziaria, agli educatori, alle suore ma anche ai volontari che sono tanti e da anni vengono a San Vittore volentieri. Si tratta di un carcere che, paradossalmente, essendo tanto vecchio è più “accogliente” di quelli moderni.

 

Quali iniziative prevede il carcere per reintrodurre i detenuti nella società?

Si inizia dai permessi premio. Dove il detenuto può stare fuori alcune ore al giorno. O essere ospitato dai familiari. Il passaggio successivo è il regime di semilibertà, in cui si reca, con mezzi propri e non accompagnato dagli agenti sul luogo di lavoro – in genere soggetti pubblici – per far ritorno, la sera, in carcere.  A Milano molti posti di lavoro sono offerti dall’Amsa o dal Cimitero maggiore. Dalla semilibertà si passa all’affidamento in prova ai servizi sociali. La persone esce dal carcere, ed è libera, salva alcune prescrizioni, come il divieto di uscire dai confini della Regione o passare la notte fuori casa. Si tratta di una prova cui il detenuto viene sottoposto per dimostrare di esser disposto ad aderire ai valori della nostra convivenza civile.

 

Esistono attività simili anche all’interno del carcere?

 

 

Sono previsti corsi scolastici, sia dell’obbligo che di secondo grado. A San Vittore, ad esempio, è possibile conseguire il diploma turistico alberghiero. Esistono inoltre attività laboratoriali interne. Sempre a San Vittore c’è una sartoria con una sede esterna, la Sartoria Alice di Via Terraggio, che produce, per i magistrati che ne fanno richiesta, le toghe.

 

Tornando alla Reggiani: è presumibile che nessuno possa averla mai costretta a svolgere simili attività…

 

 

Certo, non sono obbligatorie. Non si possono obbligare le persone a studiare o a lavorare. Si tratterebbe di una sorta di dittatura culturale e non solo. Sono offerte dello Stato di fronte alle quali: in genere,  è difficile che il detenuto rifiuti. Di solito, è più alta la domanda che l’offerta.