Alberto Mingardi, direttore generale dell’Istituto Bruno Leoni, è tranchant. Solo il mercato può realmente sanare le sacche di inefficienza, ed emarginare i politici che, per calcolo elettorale, tendono normalmente a moltiplicarle. E questo è vero per tutti i sistemi, anche quelli più virtuosi. Sì ai privati, no al pubblico: «L’unica chance per avere un welfare che non sprechi è avere un welfare non più statale». E i deboli? Anch’essi troverebbero più aiuto in una società più libera.



Il welfare universalistico è morto. A livello sia di principio che di fattibilità, quali sono le strade che si aprono per il nostro paese, nel contesto più ampio nel quale viviamo?

Mi sembra un’affermazione un po’ troppo netta. Il welfare universalistico e fornito in monopolio dallo Stato, modello one size fits all, si è dimostrato inefficiente e probabilmente è incompatibile con il contesto di “crisi fiscale permanente” nel quale siamo e sempre più vivremo negli anni a venire. Detto questo, è difeso con grande passione e c’è addirittura chi – penso agli indignados visti sfilare a Roma – vuole paradossalmente più welfare, e quindi più spesa pubblica. Sarebbe opportuno, al contrario, riflettere su come sia possibile immaginare una transizione a un sistema che sia “bottom up”, cioè che faccia assegnamento in prima battuta su realtà di carattere privato e nate spontaneamente dalla e nella società, e quindi necessariamente focalizzato su bisogni ed esigenze realmente presenti.



La sfida del nuovo welfare, in un tempo di vacche così magre, sembra essere quella di riuscire a “selezionare” i destinatari. Come intercettare il reale bisogno senza sprechi?

La domanda dovrebbe essere: può un welfare pubblico essere “senza sprechi”? È altamente improbabile. Quello che il resto del mondo chiama “spreco”, il politico chiama “voti”. Gli sprechi nel sistema sono la conseguenza dell’esigenza di gruppi d’interessi, piccoli o grandi, che di quegli “sprechi” vivono. L’unica chance per avere un welfare che non sprechi è avere un welfare non più statale.



Il welfare lombardo ha elaborato una sua strada peculiare, quella della pluralità dell’offerta pubblico/privato e della libertà di scelta. Lei che bilancio ne fa?

Non credo vada esagerata la peculiarità del “modello lombardo”. Nella sanità, esso ha rappresentato forti elementi di novità, ma le forze della conservazione, a livello locale, coincidenti con l’attore pubblico, non mi paiono necessariamente meno resilienti che in altre regioni. Per dire: non è che in Lombardia non si finanzino a pie’ di lista gli ospedali pubblici. Però l’ispirazione originaria, improntata al principio di sussidiarietà e a logiche di concorrenza, del modello lombardo è preziosa. Ma purtroppo dalla fine degli anni novanta ad oggi si sono fatti pochi passi in avanti. Ci si è “seduti” sugli allori, forti dell’esistenza di “strutture d’eccellenza” (che ci sono), senza cercare altri spazi per evolvere ulteriormente il modello. Il fatto che leadership nazionale e leadership locale appartenessero allo stesso partito politico non ha giovato, rendendo difficile quella dialettica Regione-Stato centrale necessaria per patrocinare effettive riforme.

Che ruolo deve avere la libertà di scelta in un sistema di welfare? Le pare che la Lombardia l’abbia sviluppata a sufficienza?

La libertà di scelta è un principio fondamentale, ma libertà e responsabilità vanno di pari passo. Se prendiamo la sanità, è inimmaginabile che essa arrivi davvero ad essere “sostenibile” fintanto che i pazienti non verranno chiamati a partecipare, direttamente, alla spesa. Il sistema presenta i problemi classici di una situazione in cui la domanda è sussidiata – e il pagamento è intermediato da un terzo.

Voucher e dote sono stati gli strumenti-chiave del welfare lombardo. Sapelli però afferma che il loro lato debole è l’informazione: questa scarseggia e questo penalizza la libertà. Qual è la sua opinione in proposito?

Sarebbe auspicabile che gli individui fossero più informati sugli ospedali in cui si trovano a transitare come pazienti, o sulle scuole che scelgono per i loro figli. Non bisogna neanche esagerare il ruolo delle asimmetrie informative in questi settori: ci sono, esistono, ma nel momento del bisogno c’è di norma una forte tendenza ad utilizzare network di conoscenze e a scegliere, quando possibile, sulla base della reputazione. Gli individui sono razionalmente ignoranti (non hanno incentivo ad informarsi sui dipartimenti di cardiochirurgia, se non sono già ammalati) e si informano nel momento del bisogno. C’è un altro elemento da considerare. Purtroppo, per esempio nella scuola, la libertà di scelta di cui le persone godono è ancora troppo ridotta per costituire un elemento sufficiente e portarli a cercare informazioni ad ampio spettro. In una situazione di reale libertà scolastica, per esempio, emergerebbero probabilmente delle guide ad hoc, per valutare i diversi istituti e orientare i genitori nella scelta. Ma finché non avremo un modello interamente basato su voucher o crediti d’imposta, che attiri nuovi imprenditori, e nel quale gli attori inefficienti siano lasciati andare a gambe per aria (cioè: finché non avremo un mercato), è scarsamente probabile che strumenti del genere si appalesino.

Si è puntato molto sul welfare mix: realizzazione di piani personalizzati di sostegno alla famiglia nell’assolvimento dei compiti educativi e di cura dei minori, creazione di reti di mutuo aiuto, realizzazione progetti personalizzati di tutela della maternità e promozione della natalità, fondi destinati alle Pmi, eccetera. Il miglioramento di questo sistema da dove passa? Da una liberalizzazione ulteriore dei servizi? E i più deboli?

Una società più libera svilupperebbe molto probabilmente un più forte senso di responsabilità verso i più deboli. È buona cosa ricordare che già oggi i membri più miserabili della nostra società sono spesso assistiti da associazioni o opere caritatevoli, che arrivano laddove lo Stato non riesce ad arrivare. Un’opera di informazione più puntuale, che interessi ampi strati della popolazione al lavoro di queste persone, e incentivi di carattere fiscale che aiutino il sistema delle donazioni, sono probabilmente le iniziative più ragionevoli da prendere per essere sicuri di arrivare, nei limiti del possibile, anche alla miseria più nera. Certo, non bisogna neanche illudersi. Nessun sistema è perfetto, e tragedie sociali esistono e continueranno ad esistere.

Negli Usa scuola e istruzione sono un capitolo del welfare, ma in Italia no. Cosa le suggerisce questo fatto?

L’educazione è un pilastro di qualsiasi Stato sociale, lo si chiami così oppure no.

Cosa pensa del ruolo del terzo settore e del non profit?

Il terzo settore è potenzialmente il grande attore del nuovo welfare, ma la moda di glorificarlo è pericolosa. In primo luogo, essere non profit e non for profit è uno svantaggio: i profitti sono segnali che dicono a chi è attivo in una certa impresa se sta facendo bene o se sta facendo male. L’assenza di questo meccanismo segnalatore non aiuta a far meglio il proprio mestiere. Il non profit presenta opacità e inefficienze, in parte “naturali”, dovute al fatto che è un settore mosso per la più parte dall’entusiasmo e dalla voglia di fare di persone di cuore. Ma questo entusiasmo può andare sprecato, o meglio essere utilizzato strumentalmente da persone in cattiva fede. Da ultimo: il non profit è tanto più forte quanto più una società è “di mercato”, quanto più essa cresce ed è in grado di sostenerlo, quanto più il ruolo dello Stato è limitato e le persone sono chiamate in causa direttamente, per la cura del proprio prossimo. Immaginare che il non profit possa crescere e prosperare in un contesto complessivamente immutato è una illusione.

Chi sono i nemici di un sistema regionale efficiente?

Il nemico è il processo politico. Lo Stato sociale vive e prospera sull’esistenza di gruppi di tutelati e di garantiti, alle spalle di tutti. Gruppi d’interesse omogenei riescono di solito a fermare riforme che invece andrebbero a vantaggio di tutta la collettività. È il processo politico, il vero nemico delle riforme.

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