Segni particolari: mentalità da “vecchio cooperatore”. Che poi è la chiave di lettura attraverso la quale Giulio Sapelli, docente di storia dell’economia presso l’Università Statale di Milano, interpreta la riforma del welfare lombardo. Il voto del professore sullo spostamento del baricentro dall’offerta di servizi alla domanda? “Buono”. Anche se, per ora, solo “sulla carta”.



E nella realtà?

Si tratta di un vecchio tema, che è stato già affrontato in Australia, così come negli Stati Uniti. Il principio è più che buono, sulla carta è il modello migliore possibile.

Andiamo con ordine: cominciamo con i lati positivi.            

Innanzitutto un welfare concepito come quello lombardo è un’ottima cosa perché comporta una pluralità di offerte, tra pubblico e privato, e poi perché offre all’utente la possibilità dell’utente di scegliere non solo di quali servizi usufruire, ma anche chi glieli deve erogare.



Si riferisce al meccanismo dei voucher, della dote, dei vari buoni da “spendere” presso enti, associazioni, ecc.?

Certamente. Anzi, sarebbe un modello da estendere anche all’istruzione.

Sta suggerendo una riforma scolastica?

Diciamo che ci vorrebbe. Consideriamo la scuola statale: non si può certo dire che sia riuscita a far superare le diversità. Così com’è stata concepita, non funziona certo da ascensore sociale, come dovrebbe essere. E per poter accedere alle scuole private c’è di fatto una selezione basata ancora sul censo. Pensi che libertà darebbe il poter scegliere la scuola attraverso il meccanismo dei voucher.



E che spinta formidabile sarebbe per le scuole questa nuova forma di concorrenza…

Anche. Ma c’è un ostacolo che ancora non è stato superato.

Quale?                            

Perché il meccanismo dei voucher, delle doti, dei buoni da spendere sia realmente efficace, si presuppone di avere dall’altra parte dei cittadini realmente informati. Ma c’è la volontà di informarsi?

Diciamo che magari è presto per giudicare…        

Diciamo anche che qua in Italia, quando si resta disoccupati, nonostante tutta la buona volontà e la voglia di partecipare, non si pensa a fondare una cooperativa con altri disoccupati, ma si aspetta l’intervento dello Stato, con sussidi di disoccupazione, cassa integrazione, e così via.

Cosa ci vorrebbe, allora?                      

Penso a una riforma morale, e anche culturale: vorrei che i cittadini fossero più pronti ad accogliere la novità rappresentata dai voucher, dalla possibilità di scelta che offrono. L’unica soluzione, almeno per il momento, è che l’informazione venga mediata dall’associazionismo.

E infatti la riforma del welfare lombardo punta molto, se non tutto, proprio sulle reti del terzo settore.

Quando il cittadino si sarà evoluto, non ci sarà neppure più bisogno di tutte queste associazioni, di tutte queste reti. Diciamo che il modello che ho in mente è quello di una “sussidiarietà temporanea” che svolga una funzione educativa di massa.

C’è anche un altro problema: gli oneri del welfare.

Credo che molti servizi non dovrebbero neppure continuare ad essere finanziati attraverso le imposte.

Chi dovrebbe pagare il conto?

Auspico uno spostamento dal pubblico al privato, attraverso meccanismi come la vecchia mutua socialista dei ferrovieri. Ma io ho una mentalità da vecchio cooperatore, e d’altra parte quelli erano tempi in cui si andava verso la piena occupazione.

C’è una terza via?

Sì, quella che è sempre stata percorsa in tutto l’arco della storia, tranne che nell’ultimo secolo: la filantropia. Ci vorrebbe un no profit innescato dai più ricchi, e non dai più poveri. Ma la nostra borghesia ormai è abituata solo a prendere, più che a dare.

Eppure solo i ricchi potrebbero permettersi il lusso della filantropia…           

E fino all’800 se la sono permessa. Anche l’ospedale Cà Granda è stato costruito grazie alla filantropia privata.

Invoca una patrimoniale?                 

No. Ma sogno una ridistribuzione donativa della ricchezza.

 

(Marina Marinetti)

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