“La cultura come terapia” è un libro scritto dall’ex sindaco di Milano Carlo Tognoli insieme a Giuseppe Di Leva, un ottimo operatore culturale. Il 5 novembre sarà presentato all’Auditorium nel quadro di una mostra sulle attività culturali svolte da Palazzo Marino negli anni ’70 e 80′. Con una genericità degna di miglior causa, gli anni Ottanta in particolare, segnati da giunte a conduzione socialista, sono stati “battezzati” come quelli della “Milano da bere”. In realtà, dopo la crisi economica degli anni Settanta e il passaggio di Milano da città industriale a città postindustriale, ci fu una vera fioritura di iniziative culturali di cui il Comune fu il principale promotore, come racconta Tognoli a IlSussidiario.net.



Tognoli, lei ricorda quel periodo che visse Milano?

Sono stato a Palazzo Marino dal 1976 al 1986. Quel periodo lo ricordo e ho voluto rammentarlo con questo libro scritto insieme a Giuseppe Di Leva. Quando diventai sindaco non si viveva in un periodo semplice. La città era depressa, in crisi economica e sociale, attraversata da terrorismo e violenza. Ma era pur sempre Milano, città con un back-ground importante e di grandi capacità creative. La caratteristica della città è stata sempre quella di riprendersi dopo le sue cadute. E’ storicamente documentato. E’ come se Milano avesse delle difese immunitarie che si sono sempre riattivate sul terreno economico, sociale e culturale.



C’è il precedente dell’immediato Dopoguerra.

Un periodo eccezionale. La ricostruzione della Scala e la geniale creazione del Piccolo Teatro hanno riportato Milano rapidamente nel circuito internazionale, malgrado le ferite della guerra. Il “miracolo economico”, che ha avuto il suo epicentro a Milano, ha segnato il periodo postbellico negli anni Cinquanta. Ma la Scala riaprì i battenti nel maggio del 1946 e il Piccolo nacque nel 1947. Sembravano l’avanguardia di un imprevedibile sviluppo industriale italiano. E’ sulla base di quei precedenti che cercammo, a cavallo degli anni Settanta e Ottanta, di emulare le giunte dei sindaci Greppi e Ferrari per la loro azione culturale nel dopoguerra. Certamente i contesti erano differenti e i risultati di quelle giunte ineguagliabili. Però imparammo una lezione: una città non vive se dimentica la propria storia, se i musei e i teatri chiudono, se la musica tace.



Milano, nel passaggio dagli anni Sessanta agli anni Settanta, era particolarmente provata?

Da noi c’è stato un lunghissimo ’68. C’era una situazione politica concitata. E soprattutto la città aveva provato sulla sua pelle la strage di piazza Fontana e altro ancora. Contemporaneamente ci fu una congiuntura economica negativa, un rallentamento della produzione, un’inflazione che toccò anche il 20 percento. E fino al 1979 una grande instabilità e concitazione politica.

A metà degli anni Settanta lei divenne sindaco di Milano.

Quella giunta fece delle opere importanti nel campo delle infrastrutture, dei trasporti, della viabilità. Ma l’azione dell’amministrazione comunale poteva dare risposte parziali, interpretando le trasformazioni in atto e incoraggiando una politica di sviluppo, per ridurre i contraccolpi sociali con gli strumenti disponibili: urbanistica e cultura”.

Perché la cultura, Tognoli?

Sul piano della politica culturale c’era la convinzione che il Comune dovesse promuovere manifestazioni di livello (mostre, convegni storici, concerti di musica classica e leggera) e sostenere le iniziative autonome di qualità (i gruppi teatrali formati da giovani) per ridare fiducia ai milanesi e permettere loro di riappropriarsi della città. Non va dimenticato che negli anni Settanta alla sera, svuotati gli uffici e le fabbriche, chiusi i negozi, a Milano sembrava tornato il coprifuoco del periodo della guerra. Nel giugno del 1978 si tenne un convegno alla “Piccola Scala” con la partecipazione di autorevoli esponenti della cultura e della politica milanese.

Le ricorda quelle iniziative?

Le mostre sui Longobardi in Lombardia, agli Etruschi, al Bicentenario della Scala, alle Origini dell’astrattismo, al Design, all’Altra metà dell’avanguardia, agli “Anni trenta”, alla Cà Granda, alle celebrazioni leonardesche. Solo per citarne qualcuna. Il successo delle manifestazioni non fu assicurato solo dalla grande affluenza di pubblico, ma alla valutazione qualitativa che ne fecero i critici. Poi c’erano alcune iniziative a cavallo tra il tempo libero e la cultura.

Molti ricordano l’iniziativa di “Milano aperta”.

Milano aperta fu un programma di ospitalità per il teatro internazionale, ebbe un crescendo qualitativo impressionante, straordinario. Tra i complessi ospitati e i registi e i protagonisti ricordo per il teatro d’avanguardia e la danza contemporanea Lindsay Kemp, Peter Brook, Arianne Mnousckine, Tadeusz Kantor, Andrej Waida, Jerzy Grotowsky, Kristoff Zanussi, Pina Bausch, Carmelo Bene, Merce Cunningham, Bob Wilson. Una concentrazione forse irripetibile di personalità del teatro, alcune delle quali rimasero per mesi e anni a Milano per produrre spettacoli. Tra questi Kantor e Carmelo Bene. Quest’ultimo ci era stato consigliato dal Presidente della Repubblica, Sandro Pertini. E significativa fu la presenza dei polacchi, in un’epoca dove Solidarnosc lottava per la libertà della Polonia. E poi altre iniziative di prim’ordine che sono documentate.

Tutto questo che cosa le fa pensare ?

Che Milano non era la città dell’effimero, che non era la città degli yuppies (una minoranza di piccole minoranze) e di consumi a gogò. Era una città dove si ricominciava a vivere normalmente dopo gli anni del terrorismo e della violenza, era una città dove la moda si stava imponendo come industria, era una città che offriva di nuovo posti lavoro a chi aveva talento e volontà, era una città che aveva cura degli anziani e dei minori. Era una città con un alto gradi di partecipazione dei cittadini, che potevano esprimere la loro opinione o le loro proteste nelle assemblee di caseggiato e di quartiere. Anche le iniziatrive culturali, pubbliche e private, basate sul pluralismo delle tendenze e sulla creatività, produssero il loro effetto benefico superando gli steccati delle istituzioni un po’ ingessate e gli orientamenti fondamentalisti delle ideologie estremiste.

 

(Gianluigi Da Rold)