Sanità pubblica internazionale e sussidiarietà possono andare a braccetto. Lo dimostrano alcuni esempi di approccio pratico alle sfide poste dall’epidemia globale di tubercolosi portati nei giorni scorsi a un convegno milanese da Giuliano Gargioni, Team Leader di Stop TB Partnership, organismo che fa parte dell’Organizzazione mondiale della Sanità. Che ha lavorato per 17 anni in Africa prima come direttore dei servizi sanitari regionali in Nord Uganda e poi come adviser al ministero della Salute per la creazione del programma nazionale di controllo della TBC e che, da nove anni, opera presso il dipartimento per la lotta alla TBC dell’OMS a Ginevra.



“Le sfide concrete poste a livello globale e nazionale dal controllo della tubercolosi”, ha detto il dottor Gargioni, “mi hanno portato con altri colleghi a scoprire il valore di un approccio sussidiario nell’affronto delle problematiche”. E le sfide fondamentali che una malattia tutt’altro che sconfitta nel mondo (e che si è riaffacciata anche in Italia, prima l’anno scorso in una scuola milanese e ora a Roma, all’ospedale Gemelli) porta sono sostanzialmente tre, secondo Gargioni: il problema della cronicità, o comunque della lunga durata di una malattia che richiede contatti ripetuti del paziente con il servizio sanitario (anche per 24 mesi di seguito), quello della formazione e dell’introduzione su larga scala di nozioni detenute da un numero ristretto di specialisti e infine dell’identificazione di un ruolo che la famiglia e la comunità possono svolgere in qualità di ambito relazionale più vicino al paziente.



Nel 2010 ci sono stati circa 9,4 milioni di nuovi casi di TBC (la maggior parte in giovani adulti), dei quali 1.100.000 era infetto anche da HIV. Circa il 40% di questi casi non sono stati diagnosticati e continuano quindi ad alimentare il ciclo di trasmissione della malattia. Sempre nel 2010 vi sono stati circa 1.700.000 decessi (4700 al giorno) in gran parte prevenibili. Si stima che circa 440.000 nuovi casi e 150.000 decessi siano attribuibili a forme multifarmacoresistenti, con una malattia molto più difficile e costosa da curare perché non risponde ai chemioterapici di prima linea. In alcuni paesi dell’ex-URSS le forme resistenti hanno raggiunto picchi del 28% tra i nuovi casi. E solo il 10-15% di questi viene diagnosticato.
C’è anche un problema a livello di servizi diagnostici: nel mondo a 4 pazienti su 10 non viene diagnosticata la malattia: occorre introdurre nuove tecnologie per poterlo fare. Tutto questo nell’ambito di sistemi sanitari in cui, nella maggior parte dei paesi endemici (soprattutto quelli in via di sviluppo), le risorse umane e finanziarie sono molto limitate. Come agire di fronte a problematiche così gravi? In modo “sussidiario”.



“Il problema del supporto sanitario, personale e sociale ai malati”, non ha dubbi Gargioni, “è stato il primo ad aver evidenziato la validità di un approccio di sussidiarietà nel progettare e gestire i servizi sanitari. I pazienti TB necessitano, infatti, dopo una fase intensiva di trattamento, di una terapia che può durare dai 6 ai 24 mesi. In passato si è cercato di fissare visite di controllo regolari e frequenti che, tuttavia, hanno un costo elevato non solo per i servizi sanitari ma anche per i pazienti che devono frequentemente interrompere l’attività lavorativa”. O, in alcuni Paesi, percorrere anche 600 Km prima di arrivare a un ambulatorio. “L’alternativa a questo approccio”, dichiara Gargioni, “è stata la creazione di un sistema di supporto sociale, nel quale un familiare o un vicino si impegnano ad essere presenti quotidianamente, col consenso del malato, al momento dell’assunzione della terapia. Ciò ha permesso, di fatto, condizioni umane più favorevoli all’aderenza alla terapia e ha comportato costi molto inferiori sia per il sistema che per il paziente”. Il lavoro di Gargioni e del suo team ha portato alla formulazione delle linee guida dell’OMS sulla Community TB Care, che è stato reso possibile, tra l’altro, grazie anche al sostegno finanziario della Direzione Generale Sanità della Regione Lombardia.

Ma ci sono altri fattori da tenere in considerazione: in molti Paesi si assiste ad una concentrazione del personale e delle strutture sanitarie nelle realtà urbane e la creazione di nuove strutture pubbliche nelle zone periferiche è spesso improponibile per la mancanza di risorse. “Tuttavia”, afferma Gargioni, “queste aree più disagiate sono spesso quelle dove la società civile si organizza per tentare di affrontare il bisogno di servizi essenziali, per lo più mediante iniziative di matrice privata e non-profit. E’ il caso delle attività prestate da organizzazioni non governative e dagli ospedali missionari.
La collaborazione, l’accreditamento e spesso il sostegno a queste strutture non-profit e/o private evita spesso il rischio di duplicare servizi già esistenti o l’onere di creare ex-novo competenze già disponibili su un certo territorio. Abbiamo affrontato questo problema proponendo la creazione di partenariati per la salute tra le varie istituzioni sanitarie coinvolte. In essi l’autorità sanitaria pubblica ha un chiaro ruolo normativo e di coordinamento ma riconosce allo stesso tempo, e contribuisce anche finanziariamente, al ruolo svolto da ogni partner. In diversi casi, in Nigeria, Swaziland ed Uganda, ma anche in Brasile, in India e nelle Filippine, queste iniziative hanno portato ad estendere l’accesso a servizi essenziali ad intere aree del Paese che ne erano precedentemente sprovviste”.

Nel 2010 è diventata disponibile una nuova metodica diagnostica, il Gene Xpert test, basata su procedure di amplificazione del DNA, che consente una diagnosi molto rapida e accurata non solo della TBC “tradizionale” ma anche delle forme resistenti alla Rifampicina, un farmaco utilizzato in prima linea nella lotta alla TBC: “Dall’utilizzo dell’esame colturale classico che richiedeva anche 6-8 settimane”, conferma Gargioni, “siamo arrivati a 90 minuti”. Ma le apparecchiature e i farmaci di seconda linea sono costosi: chi se li potrà permettere? E, inoltre, occorre formare medici e operatori sanitari che sappiano usare queste nuove tecnologie. “Anche in questo caso”, osserva però Gargioni, “sembra ragionevole partire dal coinvolgimento delle risorse e dei servizi che già operano nei vari paesi (università e istituti di ricerca, settore privato, etc). Se l’epidemiologia locale suggerisce che il numero dei beneficiari di questi servizi sarà probabilmente limitato, consigliamo al governo di stipulare contratti e utilizzare i servizi di istituzioni accreditate. In altri casi laboratori e istituti di ricerca sono stati invece coinvolti nella formazione e nella creazione di una capacità operativa all’interno del settore pubblico”. E’ successo già  in Sud Africa, Lesotho, Uganda ed Etiopia.

“Spero si possa vedere, attraverso questi esempi”, ne conclude Gargioni, “che la sussidiarietà appare spesso come l’approccio più realistico nella pianificazione e nella gestione dei servizi sanitari. Il modello di servizio alla salute che deriva da questo approccio pone al centro il paziente stesso e la comunità cui appartiene, piuttosto che la malattia;  questo rende il servizio più efficiente, più efficace e anche meglio accettato”.