Giovedì 6 verrà presentato a Milano Michetta addio, il secondo volume del progetto “Le nuove meraviglie di Milano”, di cui il sottoscritto è il curatore. Il progetto prevede, se Dio ci aiuterà, sei volumi.
Ora, alla presentazione di un libro di questo tipo – che contiene una lunga serie di immagini, storie, descrizioni, illuminazioni riguardanti la nostra città in trasformazione – è bene che chi dirige i lavori si ponga una domanda di questo tipo: come sarà il volume successivo?
Non si tratta di preordinare qualcosa che ha il suo valore principale proprio nella spontaneità e nell’imprevedibilità dei contenuti. Si tratta di avere ben chiare le sponde entro le quali questa spontaneità e questa imprevedibilità si muovono.
E’ bene infatti non dimenticare i grandi eventi che in un modo o nell’altro decideranno il volto della città nei prossimi anni. Come finirà l’affaire San Raffaele? Come risponderà la città (con i suoi poteri forti) alla presenza del nuovo Arcivescovo? Cercherà di trarne vantaggio oppure in molti si arroccheranno dietro i soliti pregiudizi, trasformando le proprie spinte ideali in nuove conventicole di potere? Che ne sarà del progetto, così opportuno, della Grande Brera? Riuscirà a ripartire? Riusciremo a liberarci di tutto il denaro sporco che inquina finanze e opere pubbliche peggio del CO2? Che forma prenderà l’Expo?
Mettendo insieme tutto questo e molto altro, la domanda che nasce tocca il punto culturalmente più acuto e controverso, sul quale – ben più che sull’Expo – è destinato a giocarsi il futuro di Milano. Mi riferisco al tema della sofferenza e della morte.
Oggi a Milano la cultura si fa soprattutto negli ospedali. Lì infatti, ben più che sui giornali – sempre meno letti – o nelle università – sempre più snobbate – si gioca la concezione della vita e della morte della nostra città. Niguarda, S. Carlo, S. Raffaele, Policlinico, Besta, Istituto dei Tumori, Ieo, Fatebenefratelli, Sacco e tutti gli altri non sono solo luoghi di cura ma anche luoghi di vero pensiero.



Lì, infatti, nulla può essere dato per scontato: il male, il dolore e la morte non sono più pensieri, ma diventano realtà e chiedono a tutti – malati e parenti – di prendere una decisione di fondo, sul significato della vita, su quello che vale e quello che non vale, e così via.
Essere ricoverati in un reparto piuttosto che in un altro, sotto questo o quel medico comporta molte differenze, perché il medico è un uomo speciale, uno che può tenere in mano la tua vita, e con il quale devi fare i conti non meno che con la tua malattia. Essere curati all’Istituto dei Tumori e allo Ieo sono due esperienze diverse.
Ora, non dobbiamo nasconderci il fatto che – come ben sottolineato da Fabrice Hadjadj nel suo formidabileGiobbe – oggi la sofferenza e la morte sono campo di battaglia delle concezioni e ideologie più diverse.
Dall’eutanasia all’uso delle cellule staminali, dai proclami di chi annuncia la futura liberazione dei milanesi dal dolore e dalla morte al traffico di organi, da chi tratta un tumore come un evento mondano a chi constata l’impotenza della medicina e ammette la dimensione del mistero, da chi dice che la medicina ha il compito di liberarci dal male a chi dice che è innanzitutto un gesto di cura, e dunque di pietà, di compagnia: è qui che si decide un pezzo consistente – il più consistente – del nostro modo di affrontare il futuro e i suoi imprevisti.
Qui sta, insomma, la grande battaglia. Che comprende, naturalmente, il grande tema dell’accoglienza: accoglienza dei malati, accoglienza degli stranieri, accoglienza di chi è in difficoltà, accoglienza – come direbbe il Card. Scola – della differenza.
Da qui, mentre presento il secondo volume di questo lavoro dedicato alla drammatica bellezza della nostra metropoli in trasformazione, vorrei partire per costruire il terzo. Sono certo che questa sfida determinerà in gran parte i rapporti, anche culturali, di Milano negli anni a venire. 

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