Il primo discorso del card. Scola al mondo economico milanese cade nel mezzo di  un momento delicatissimo. I timori per la finanza  pubblica,  le persistenti  incertezze internazionali, i dati preoccupanti sulla produttività e la disoccupazione giovanile, tolgono  il sonno a molti  banchieri, imprenditori, finanzieri. Il problema non è solo il trascinarsi della crisi. È che si fa fatica a vedere una qualche via di uscita dal tunnel.



Il kairos non poteva essere più centrato. E di fronte ad una tale sfida, il nuovo arcivescovo non si è tirato indietro. Parlando  alla “Milano nodo della  rete globale”, Scola ha fatto un discorso ampio, in piena sintonia con la Caritas in Veritate, esplicitamente volto ad affrontare le radici profonde della crisi in corso. Nella serena consapevolezza biblica per cui, in tempi di crisi, Dio parla alla storia dell’uomo.



Tra i molteplici spunti che attraversano il discorso del cardinale, ne sottolineo tre, che mi hanno stimolato particolarmente.

Il primo è che la natura della crisi è, prima di tutto, antropologica. È, cioè, un’idea unilaterale e riduttiva dell’essere umano – visto come una monade interessata e tutta schiacciata dentro l’orizzonte della tecnica – che, rimuovendo una parte della nostra esperienza, finisce per perdere il contatto con la realtà della vita e, di conseguenza, per rivoltarsi contro la nostra stessa umanità. Per correggere questa distorsione occorre ripartire dalla realtà: l’uomo in relazione – unico antidoto al delirio della nostra onnipotenza –  è qualcosa che possiamo riconoscere tutti se solo abbiamo  l’onestà di guardare la nostra condizione di vita. Negando l’alterità, l’esasperazione dell’individualismo porta letteralmente ad un irrealismo che arriva fino a costruire castelli di sabbia  (es. la speculazione finanziaria) destinati a crollare a causa della loro mancanza di fondamento. E come non essere d’accordo con Scola nel momento in cui, dopo trent’anni di espansione, noi oggi ereditiamo un mondo indebitato e sfibrato, dove le disuguaglianze rischiano di diventare esplosive? In tale contesto, il richiamo alla centralità del lavoro non è retorico: un’economia che non mantiene  tale riferimento può forse produrre profitti nel breve periodo, ma è destinata a sprofondare su se stessa. Semplicemente perché sega il ramo sul quale è seduta. Non è forse questa la condizione nella quale la maggior parte dei paesi occidentali si ritrova oggi?



In secondo luogo, la crisi ci dice che la pretesa neomaterialista di fare a meno del lato spirituale della vita mostra tutta la sua inadeguatezza. I classici, si pensi a Weber, lo hanno sempre saputo: nella misura in cui la crescita è la traccia mondana e il luogo della manifestazione storica della apertura al trascendente che caratterizza l’essere umano, il capitalismo – che di crescita, appunto, tratta –  è sempre debitore di uno “spirito”. Prendere atto dell’esaurimento di un modello a sfondo nichilista, che ha creduto di poter rendere infinito il desiderio reso godimento, è un passaggio fondamentale per poter affrontare con successo i problemi che abbiamo davanti ai nostri occhi. L’affermazione di Scola, secondo cui solo un rinnovamento spirituale potrà riaprire una nuova stagione di crescita, appare centratissima: solo un diverso desiderio può mobilitare quelle energie che sono necessarie per aprire una nuova stagione di sviluppo. Un desiderio che non si limita a banalizzarsi nelle mille attrazioni superficiali e sensoriali, ma che è capace di generosità e creatività.

In terzo luogo, la crisi ci costringe ad andare oltre i termini della discussione sui rapporti tra etica ed economia che hanno caratterizzato gli ultimi vent’anni. Finita la fase espansiva non si tratta più di contenere o compensare le derive dell’economicismo con un po’ di etica. Su questo punto, il discorso dell’ arcivescovo è decisamente avanzato, intercettando alcuni processi già in atto ma sui quali raramente si riflette. Per uscire dalla crisi è necessario allargare, dall’interno, la ragione economica, ricongiungendo la funzione  con il senso, la tecnica con la creatività, l’efficienza con   gli affetti. È esattamente questa la strada che hanno cominciato a intraprendere da qualche tempo le imprese più dinamiche, le quali hanno capito che, per avere successo, devono includere nella loro funzione-obiettivo dimensioni di senso e di gratuità. E considerazioni analoghe valgono per i consumatori, laddove la crisi costringe ad un uso più attento, innovativo e consapevole delle risorse.

In questo modo, il cardinale stimola le forze economiche della città a voltare pagina e a cominciare a pensare nei termini di un nuovo modello di sviluppo. Solo in questo modo ci si può liberare dal pessimismo in cui siamo ingabbiati, cominciando a pensare la crisi attuale come a una grande sfida per rendere ancora più umana, e in questo senso più ricca, la nostra vita personale e collettiva.

Come inizio, non c’è male. Speriamo che l’ingaggio lanciato dal cardinale sia raccolto dalle forze migliori della città. Uscire dalla crisi richiede coraggio, iniziativa, creatività. E quel che è certo, il contributo di tutti.