“A me la malattia ha più dato che tolto”. Mario Melazzini dalla sua invalidità ha imparato molto. Otto anni fa, quando ricevette la diagnosi certa di sclerosi laterale amiotrofica (Sla), l’allora primario del day hospital oncologico della Fondazione Maugeri di Pavia, passò improvvisamente dall’altra parte della barricata: da medico a paziente.
Oggi, a 52 anni, è presidente dell’Associazione italiana sclerosi laterale amiotrofica (Aisla) e direttore scientifico del Centro Nemo (specializzato in malattie neuromuscolari) presso l’Ospedale Niguarda Cà Granda di Milano. E coordina il Gruppo di approfondimento tecnico (Gat) della Regione Lombardia che, per la prima volta in Italia, affronta il tema della disabilità con un Piano d’azione decennale incentrato sui concetti di uguaglianza e di partecipazione.
Ma soprattutto ha sperimentato in prima persona cosa vogliano dire le lunghe code agli sportelli, l’indifferenza del personale sanitario durante i trattamenti, l’attesa e l’incertezza della diagnosi, l’isolamento dal contesto sociale, la consapevolezza di dover gravare su moglie e figli per il resto di un’esistenza scandita dal progressivo abbandono dei movimenti della muscolatura volontaria, fino alla morte per arresto respiratorio.
Abbastanza per pensare di farla finita. Come tanti altri Melazzini ci pensò: “Avviai persino la procedura per il suicidio assistito in Svizzera, una scelta che, detto tra virgolette, è potenzialmente compensibile, in una società, come la nostra, in cui la cultura che aleggia è quella che la disabilità farà vivere una condizione che porterà via tutto. Ora invece la considero un valore aggiunto”.
In che senso?
Dal punto di vista personale mi ha permesso di capire che esiste un limite, e di accettarlo. E dal lato professionale mi ha portato a una facilità di comprensione reale del bisogno del malato come persona: come medico non ho più la superficialità e la presunzione di prima, mi identifico nel paziente. Ci voleva.
Il medico uguale al paziente, il paziente uguale al medico.
Parliamo sempre dell’influenza della genetica, del fatto che siamo predisposti a sviluppare determinate malattie, che magari poi restano latenti per tutta la vita. La possibilità di sviluppare una malattia invalidante è scritta nel nostro Dna. Non c’è niente da fare: l’invalidità fa parte di noi, è dentro di noi, insita nel nostro codice genetico.
Per questo la Regione Lombardia aveva bisogno di un Piano d’azione decennale?
No, sono andato io al Pirellone. Vado sempre io. Forse pecco di presunzione, ma penso di avere un ottimo rapporto col presidente Formigoni. Lui è una persona estremamente attenta e sensibile, ed è vero che mette al centro la persona. Beh, allora deve anche permettere al cittadino di essere libero.
In che senso?
Le parole chiave del Piano sono ‘uguaglianza’ e ‘partecipazione’. Ad oggi la persona con disabilità vive in un’ottica di risarcimento. Siccome io, poverino, sono malato, tu, Stato, mi devi dare. Siamo sicuri che debba essere solo così?
Secondo lei?
Secondo me l’atteggiamento vittimistico è la prima barriera da abbattere, perché è deleterio. Abbiamo diritti, certo, ma anche doveri. Vanno bene le denunce, le segnalazioni di quello che non va, ma poi bisogna anche essere propositivi. Altrimenti verremo sempre considerati solo un costo sociale.
E poi ciò che viene dato è dato in modo inappropriato. Bisogna partire dall’identificazione del reale bisogno. In Lombardia c’è molto per le persone con disabilità. Bisogna però vedere se è effettivamente fruibile. Accessibilità e fruibilità, infatti, sono due concetti diversi.
È questo il nocciolo della questione. Perché lei, che cammina con le sue gambe, può prendere il treno quando vuole e io devo invece prenotare una settimana prima perché sono in carrozzina? In questo caso il servizio è accessibile, ma non fruibile. Se invece abbiamo degli indicatori di efficacia e di efficienza si può mettere a sistema quello che funziona.
Per esempio il Dama (Disabled anvanced medical assistance), il progetto di percorsi e cure dedicato ai disabili sperimentato al San Paolo di Milano?
Per esempio, certo. Esiste da anni, funziona, e allora basta con la sperimentazione: mettiamolo a regime, estendiamolo ad almeno un’azienda ospedaliera per ogni Asl. Ma non si tratta solo del Dama.
Infatti, nel Piano si parla di miglioramento della fruibilità dei mezzi di trasporto pubblico, di potenziamento del sistema della Dote per istruzione, formazione e università, di introduzione della figura del Case manager, un operatore in grado di farsi carico della persona con disabilità e della sua famiglia per accompagnarli nella fruizione di tutti i servizi di cui hanno bisogno. Ma soprattutto si parla di rete.
Quello messo in moto dal Piano è un lavoro di squadra, un lavoro multidimensionale e multidisciplinare. Coinvolge tutte le Direzioni generali della regione Lombardia, ma anche gli operatori privati, così come il terzo settore, nell’ottica di una politica unitaria che non solo supera le singole competenze, ma le integra. Ci siamo focalizzati sulla persona, sul suo inserimento nella società, sulla de-istituzionalizzazione e sul concetto di vita indipendente.
L’obiettivo è quello di garantire una concreta e reale continuità di risposta lungo tutto l’arco della vita della persona. Io dico sempre che il piano di azione decennale è uno strumento per tutti, che deve permettere il riconoscimento della dignità dell’esistenza dell’essere umano come punto di partenza per una società che si definisce civile.
Un traguardo raggiungibile solo “facendo rete”, appunto.
E per capirci tutti abbiamo introdotto come linguaggio comune a tutti gli operatori della rete l’utilizzo della Icf (International classification of functioining, disability and health), che classifica lo stato di salute della persona secondo una scala univoca: chiunque, in un contesto ambientale sfavorevole, può diventare persona con disabilità.
Si insiste molto sul concetto di uguaglianza. Una rivoluzione culturale innescata dalla Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità del 13 dicembre 2006.
All’articolo 19 dice che tutte le persone con disabilità hanno diritto a vivere nella società, con la stessa libertà di scelta delle altre persone. Non solo: gli Stati aderenti, quindi anche l’Italia, che ha ratificato la Convenzione il 3 marzo 2009 con la legge 18, si impegnano a facilitare il pieno godimento da parte delle persone con disabilità di tale diritto e la loro piena integrazione e partecipazione nella società. Le sembra possibile?.
Me lo dica lei: è ottimista?
Certo. Altrimenti mi chiuderei in casa. Invece non voglio guardare indietro, ma avanti.
(Marina Marinetti)