Quanto è importante l’autonomia per una persona con disabilità motoria? Molto, moltissimo. E la ricerca dell’ausilio giusto, del modo alternativo per fare le cose, del sistema per guadagnare l’indipendenza non conosce sosta. Ma tutto questo sforzo è inutile se manca una cosa che è ancora più importante dell’autonomia. Che non dovrebbe essere un traguardo da raggiungere, ma il punto di partenza: l’autodeterminazione. «Essere liberi di essere, consapevoli dei propri diritti e delle proprie possibilità», puntualizza Fulvio Santagostini, che a 14 anni è diventato paraplegico e sono 39 anni che si muove su una carrozzina. Attraverso il suo impegno alla presidenza della Lega per i diritti delle persone con disabilità (Ledha), cerca di realizzare «una società libera dall’idea di normalità, che poi – osserva – è un concetto in continua evoluzione». Passando attraverso la sperimentazione del Centro di vita indipendente aperto nel 2008 nelle sede di via Livigno 2 a Milano (www.cpv.ledha.it, tel. 02.45470673) d’intesa con la Regione Lombardia. «La vita indipendente è un concetto nato a Berkeley, in America, negli anni ’60 – racconta – legato più all’autodeterminazione che all’indipendenza. Si tratta di riconoscere alle persone con disabilità il diritto di stabilire da soli come farsi assistere, quando farsi assistere e da chi farsi assistere».
Sembra una rivoluzione.
In Italia il concetto è stato recepito solo recentemente, con la legge 162/98, che ha introdotti i piani personalizzati di assistenza domiciliare e di aiuto personale.
Che cosa sono?
Tutto ruota intorno alla figura dell’assistente personale che interpreta e rispetta il concetto di autodeterminazione della persona. Le faccio l’esempio di Francesca, una ragazza affetta da atrofia muscolare spinale col vizio del fumo. Non potrebbe assolutamente fumare, perché i suoi muscoli respiratori sono troppo deboli. Eppure, se si mette la sigaretta in bocca, la sua assistente gliela deve accendere. Senza discutere.
A costo di farle del male?
Sì, perché Francesca come tutti deve avere la possibilità di sbagliare e magari imparare qualcosa dai propri errori. Una prerogativa che ai normodotati non è negata, mentre ai disabili…
Cos’è l’assistente personale?
È una figura professionale che viene scelta, assunta, nel caso anche licenziata, se non ci si trova bene, direttamente dalla persona con disabilità.
Una sorta di badante o di infermiera?
No, perché è il disabile che decide come, quando e da chi farsi assistere, per esempio nella cura personale, negli spostamenti, nel fare la spesa, nell’entrare in un camerino a provare un vestito. È la persona con disabilità a stabilire quali siano i compiti del suo assistente e non viceversa. I ruoli sono ribaltati. E intorno alla persona con disabilità che sia libera di scegliere per la propria vita, si aprono spazi di libertà e quindi di relazione: in famiglia, sul lavoro, con gli amici.
Ma come si arriva all’assistenza personale autogestita?
Ogni persona con disabilità è un caso a sé, ha i suoi interessi, le sua attività, il suo ruolo sociale. E i suoi bisogni particolari. Si studia un vero e proprio progetto di vita, insieme con un’équipe composta da una coordinatrice, due assistenti sociali, una psicologa e due consulenti alla pari.
Chi sono i consulenti alla pari?
Altre persone con disabilità. Sono figure chiave, nel senso che hanno elaborato la loro disabilità e offrono la loro competenza per informare e gestire i percorsi formativi. Anche insieme a loro si studia un progetto che stabilisca per quante ore settimanali c’è bisogno di un’assistente, che compiti specifici abbia e quanto costi assumerlo e pagarne stipendi e contributi.
E chi paga?
Si sottopone il progetto alle autorità comunali che ne sostengono il costo per una quota che al massimo arriva al 70%. Ma prima bisogna verificare che il Comune in questione abbia destinato risorse al bando per i piani personalizzati, perché la legge 162/98 non è stata più rifinanziata e l’onere è passato ai Comuni con la partecipazione pro quota dei diretti interessati. E bisogna anche verificare cosa prevede esattamente il bando di quel Comune.
Bisogna avere fortuna…
Le faccio un paio di esempi. In un comune del Lecchese abbiamo lavorato tre anni su un progetto per una donna con distrofia muscolare per poi scoprire che il bando di quel Comune assegnava per i piani personalizzati al massimo 750 euro all’anno. Prendendoli, però, avrebbe dovuto rinunciare al voucher vacanze da tremila euro.
Esemplare.
In un altro comune del Pavese, invece, il bando non era stato neppure fatto e quindi per poter finanziare il progetto si sono inventati dei generici “interventi sperimentali”. È un problema di sistema, una distorsione del significato di federalismo.
E di risorse disponibili…
In Italia i finanziamenti per i servizi sociali sono passati da 2miliardi e 527milioni di euro del 2008 ai 545milioni previsti per il 2011. Per non affossare i servizi di assistenza domiciliare, dei progetti di vita, dei servizi diurni e delle comunità alloggio, Regioni e i Comuni dovranno compensare con risorse proprie.
Il Progetto vita indipendente terminerà a ottobre 2011. Poi cosa succederà?
In questi anni abbiamo lavorato molto per formare, educare e diffondere la cultura della vita indipendente all’interno delle Asl e dei Comuni. L’esperienza maturata sin qui da noi e dall’altro Centro sperimentale, quello di Brescia Solidale, ha permesso di individuare le buone prassi per il funzionamento del servizio. Ora si dovranno avviare almeno sei Centri per la vita indipendente nella regione Lombardia, in modo da coprire tutte le province, con il coinvolgimento delle associazioni presenti sul territorio. Ma la cosa più importante è che alla base di tutto ci sia una politica che finanzi gli interventi.