Curare e guarire: solo tecnica scientifica o c’è in gioco altro nelle professioni del medico e dell’infermiere? Questa la domanda al centro di un incontro organizzato nei giorni scorsi da “Amici di Cesare”, un’associazione ancora in nuce, che ha avuto come ospite d’onore Elvira Parravicini, neonatologa e promotrice a New York della Medconference, giunta alla sua terza edizione. Due realtà che da un lato all’altro dell’oceano condividono un unico scopo: mostrare che è possibile uno sguardo umano, oltre che scientifico e tecnico, verso il malato e che si può riscontrare la bellezza anche in luoghi dove il dolore e la sofferenza sono la quotidianità.
“Amici di Cesare” è un associazione che ufficialmente non esiste ancora sulla carta, ma già c’è e opera: nasce dall’iniziativa di famigliari, amici e colleghi di Cesare Zorzoli, chirurgo vascolare di Milano, che ha svolto la sua professione presso l’Ospedale Santa Corona di Garbagnate Milanese. Dopo la sua morte prematura nel dicembre 2009, a causa di un tumore, è nato nelle persone a lui più vicine il desiderio di ricordare l’uomo e il medico, il suo modo di essere e di fare, di rapportarsi con il paziente innanzitutto come persona, un essere umano, non un numero.
Mentre nella primavera del 2010 germoglia questa iniziativa in Italia, una telefonata arriva da New York: è Olivetta, cara amica di Cesare e di Elvira, che propone ai suoi famigliari, come primo passo della nascente associazione, di sostenere con borse di studio gli studenti che partecipano alla Medconference, convegno annuale nato l’anno precedente a New York, su iniziativa di un gruppo di persone che lavorano in ambito sanitario, per testimoniare che è possibile un approccio umano nella loro professione.
Tra i promotori c’è Elvira Parravicini, che vive e lavora a New York dal 1998, come neonatologa all’ospedale della Columbia University.
«L’aiuto dato da “Amici di Cesare” è stato fondamentale per la Medconference», esordisce Elvira Parravicini che racconta come è nata l’iniziativa negli Stati Uniti. «La scuola di medicina e infermieristica a New York è meravigliosa dal punto di vista tecnico ma nell’insegnamento è tagliata fuori tutta la questione umana». Una realtà che si scontra con l’esperienza vissuta da Elvira quando studiava in Italia, dove, racconta, passava quasi per osmosi un modo umano di rapportarsi con i pazienti: «questo surplus umano non era qualcosa che veniva trasmesso a parole, ma, durante il tirocinio, lo vedevi nel modo di fare dei medici. Così quando mi hanno affidato un corso per gli studenti del college che vogliono diventare medici, a tutti chiedevo perché volessero fare questo mestiere e alcuni mi rispondevano che volevano aiutare gli altri, oppure avevano assistito una persona cara malata. Tutti erano spinti da un ideale ma poi frequentando la Medical School rimanevano scioccati dalla freddezza e dal cinismo dei loro professori, anche molto bravi e competenti». I suoi studenti riconoscono nella neonatologa un approccio diverso da quello di molti altri medici e, anche anni dopo, le scrivono da diverse parti degli Stati Uniti, rivelando la loro amarezza di fronte a una modalità scostante di vivere la professione medica che riscontrano nei loro insegnanti.
Elvira racconta tutto ciò ad amici e colleghi con cui si trova per una cena o un caffè e nasce l’idea di un momento di ritrovo con gli studenti dove mettere a tema queste esigenze. Ma molti giovani abitano lontano e si decide di trasformare quel semplice ritrovo in una conferenza di più giorni, in cui concentrare incontri, testimonianze, dibattiti, concerti di musica classica: «La conferenza – racconta Elvira – prima era rivolta agli studenti giovani, poi abbiamo pensato di invitare medici e infermieri che mostrassero con il loro esempio una modalità più umana di vivere la loro professione, portando esperienze di bellezza e testimoniando modalità di cura più avanzate».
L’iniziativa nata da Elvira, Federica, che sta completando la specialità in medicina interna, e Veronica, giovane infermiera, una sera davanti a un caffè, si allarga a macchia d’olio: da tutti gli angoli degli Stati Uniti e dal Canada diversi amici e conoscenti portano idee, ipotesi di lavoro e interventi per la Medconference. Così è nata la prima, nel 2009, con il titolo “Perché ci curiamo degli altri?”. «La medicina è nata dalla carità – spiegava nella prima Medconference Giancarlo Cesana, medico del lavoro, ai presenti – Ma poi è diventata sempre più un business». È questo il problema chiave della sanità che viene discusso nell’ambito della Medconference. Dalla prima del 2009 alla più recente che si è tenuta dal 21 al 23 ottobre 2011, moltissimi medici, infermieri, ma anche personalità in ambito non sanitario sono intervenute: come Pierre Mertens, di origine belga, laico e non credente, che, dopo la morte della figlia malata di spina bifida e sconcertato dall’atteggiamento di molti medici che volevano lasciarla morire, ha fondato un’associazione per questi malati e per difendere la vita, specie dei più deboli. Ancora, Padre Aldo Trento, missionario in Paraguay, dove è anche responsabile di una clinica per malati terminali. E l’anno scorso, Vicky, madre di tre figli, sieropositiva, che vive a Kampala, in Uganda, e ha testimoniato il cambiamento che ha investito la sua vita grazie all’incontro e all’accoglienza dal Meeting Point International in Uganda.
La Medconference però si scontra con un problema economico: non è facile far venire da tutti gli angoli degli Stati Uniti studenti di medicina che solo per l’iscrizione all’Università spendono dai 30 mila ai 60 mila euro all’anno. Elvira racconta quindi uno dei tanti “miracoli” di sostegno alla Medconference che sono avvenuti in questi anni: «In occasione della prima Medconference era presente anche una coppia di genitori che avevano perso la bambina ancora neonata per una cardiopatia congenita non diagnosticata prima della nascita (la piccola era morta nelle mie braccia). Dopo la morte della bambina mi ero vista alcune volte con i genitori, che erano rimasti colpita dalla mia umanità e mi avevano chiesto se trasmettevo ai giovani questa passione. Ho dato loro uno dei volantini della Medconference che avevo con me. I due hanno deciso all’istante di pagare le spese per cinque studenti».
Da un anno all’altro Elvira invita i suoi studenti a verificare sul campo del lavoro quotidiano quanto sperimentato alla Medconference e a portare la loro testimonianza. «David, da Indianapolis, studente di medicina, racconta quanto gli è capitato un giorno mentre era in sala parto per il tirocinio. Quella sera c’era una signora che doveva partorire, veniva dal carcere. Lui era terrorizzato all’idea di andare da quella paziente. Vide la donna con in braccio la bambina e le chiese se fosse stanca. La donna rispose di no e lui si meravigliò, dopo il parto, alle due di notte. Lei gli disse: “Non se ne rende conto, ma queste sono le uniche 24 ore che ho per cullare mia figlia tra le mie braccia, perché io domani tornerò in carcere, questa bambina andrà alla mia famiglia e io non la vedrò per anni”. David era imbarazzato per il proprio atteggiamento e in quel momento pensava solo che anche lui avrebbe desiderato che sua madre lo guardasse nello stesso modo». «Questo – aggiunge Elvira – è uno dei tanti racconti della Medconference che testimoniano di uno sguardo educato a cogliere la bellezza nel proprio lavoro medico».
Dopo la testimonianza della Medconference portata dalla neonatologa, il dibattito continua tra i presenti, che confermano il sostegno agli studenti che vogliono partecipare alla conferenza oltreoceano e allo stesso tempo esprimono il desiderio che la realtà di “Amici di Cesare” si concretizzi in un’associazione che promuova un progetto simile in Italia. L’iniziativa potrebbe tradursi in una borsa di studio per formare medici e infermieri, secondo quello sguardo umano testimoniato proprio da Cesare Zorzoli. Per non lasciare che vada perduto quel germoglio di bene che ancora dopo la sua morte continua a dare frutto, come è stato testimoniato nel corso di questa serata.
(C.Z.)