Ragionare sui dieci punti presentati dall’assessore Stefano Boeri sulla cultura a Milano significa fare un passo oltre le polemiche che, a questo proposito, hanno messo lo stesso Boeri sull’orlo del ritiro della delega da parte del Sindaco, Giuliano Pisapia. I dieci punti di Boeri costituiscono una provocazione molto seria alla città e sarebbe un peccato lasciarle perdere senza entrare nel merito.
Dal suo blog “Robedachiodi” Giuseppe Frangi coglie con precisione il punto centrale del problema, e da lì voglio partire anch’io. Molti di coloro che si stracciano le vesti davanti alle proposte di Boeri devono chiedersi qual è la situazione culturale di questa città: situazione che anche loro hanno contribuito a produrre. Milano è una città spaventosamente provinciale. I talenti che nascono qui se vogliono crescere devono andarsene. Questo vale per i giovani ma anche per i meno giovani. La bassa qualità delle mostre milanesi è nota ovunque: mostre low-cost, itineranti, quasi mai qualificanti. I nostri studiosi, che sono ottimi, devono esportare il proprio talento su altre piazze.
Quindi non vedo di che dovremmo lamentarci se Boeri rilancia Palazzo Reale, oggi tempio di plastica della cultura nazionalpopolare che già 18 anni fa Marc Fumaroli distrusse per sempre nel suo capolavoro Lo Stato Culturale. Non vedo di che dovremmo lamentarci se Boeri si avvale del generoso aiuto di uomini come Obrist (il più importante e geniale gallerista europeo) o come il grande storico dell’arte Giovanni Agosti o di un critico di indiscusso valore internazionale come Francesco Bonami. Tanto per fare tre nomi.
Inoltre Boeri – che ha una conoscenza concreta e non teorica della nostra città, e sa che non è fatta a “cerchi” ma ha una struttura ben più complessa – ci invita, con una serie di idee tutte interessanti, a riflettere sul rapporto tra centro e periferia: “la cultura in periferia” dice “non deve mai essere cultura periferica”.
Il problema vero è che anche nel centro di Milano si fa cultura periferica. La nostra città ha costruito nei decenni alcuni poli d’eccellenza che vanno aiutati a svolgere la loro funzione. Penso ai nostri teatri, e in primis al Piccolo, che – scusate se è poco – è uno dei teatri di prosa più importanti del mondo, e non può essere ridotto a semplice spettacolificio.
La valanga di soldi che la Scala inghiotte nella sua enorme macchina può essere limitata se noi offriamo alla Scala non solo soldi ma una città che stia complessivamente alla sua altezza. Non solo “Milano per la Scala” ma anche “La Scala per Milano”. Ed è questo ciò che Boeri vuole realizzare. Desidero sottolineare altre due idee interessanti.
La prima (che è quella su cui si sono scatenate le maggiori polemiche): il trasferimento del Museo di Arte Contemporanea da CityLife, dove per ora è programmato – con preventivi di costo esorbitanti. La proposta di Boeri non è solo di portare questo polo all’ex-Ansaldo, ma di cambiare l’idea stessa del museo, contaminando tra loro due idee vecchie (quella dell’Arte Contemporanea a CityLife e quella delle culture non europee dell’ex-Ansaldo) per progettare, come dice Frangi, “un luogo per l’arte contemporanea dove ci sia spazio e visibilità per tutte le culture che in questi decenni sono confluite a Milano. La multietnicità infatti è un’esperienza viva e non da museificare”. La proposta di Boeri è dieci chilometri avanti, ad esempio, rispetto al museo di Quai Branly, a Parigi.
La seconda idea è quella che Boeri prende in prestito (ma solo come immagine) dal Fuorisalone. Mi piace l’idea di “Fuori-cultura”, che trovo molto sana e vitale. La cultura non è “quello-che-penso-io”, ma “quello che imparo dall’altro-da-me”. L’idea che i luoghi deputati della cultura abbiano un loro “fuori” (sempre a patto che questo “fuori” sia libero nella sostanza e non solo nella forma) è eccellente. Scriveva Wittgenstein: “Dobbiamo essere sempre pronti a imparare qualcosa di completamente nuovo”. Questa è la cultura: e non la si fa senza il suo “fuori-cultura”.
Non sto a discutere tutti i punti. Mi sembra di poter dire che la grande conoscenza di Boeri del fenomeno-città gli ha permesso di stilare un decalogo che potrebbe aiutare la città a valorizzare la propria originalità. Boeri non copia modelli esteri, ma ne prende gli spunti per rilanciare. Non gl’interessa che Milano raggiunga determinati standard (quella dell’eccellenza per esempio è una bufala colossale), ma che si attesti nella sua insostituibilità.
Le difficoltà politiche non m’interessano: intelligentemente, Carlo Masseroli le ha riassunte parlando di “un’opa di Pisapia sul Pd”. Quello che dico è che il risultato di tutta questa storia rischia di essere quantomai deprimente. Spero vivamente che, alla fine, non ci ritroviamo tutti con l’immagine di una Milano che non può permettersi Boeri e deve accontentarsi ancora una volta di vivacchiare nella sua mediocrità.
Pisapia, che è un uomo stimabile, ci pensi bene. C’è già tanta mediocrità in giro per Milano.