“Un contributo per uscire dallo stereotipo che vede l’extracomunitario solo come forza lavoro, da tutelare secondo la versione ‘buonista’ o da sfruttare secondo quella meno benevola. Osservando invece l’immigrato per quello che è realmente: una sfida per il nostro welfare, il sistema dell’abitare, la realtà sociale e la cultura”. E’ questa, secondo Aldo Bonomi, direttore dell’Istituto di Ricerca Aaster, la portata innovativa del libro della Fondazione per la Sussidiaretà “L’immigrato, una risorsa a Milano”, curato da Gian Carlo Blangiardo e di cui si discuterà nel corso di un incontro previsto per stasera, lunedì 7 novembre, alle ore 21 nel Teatro Franco Parenti. All’incontro, oltre a Blangiardo e Bonomi, interverranno Maria Grazia Guida, vicesindaco di Milano, Aldo Brandirali, ex assessore alle Politiche giovanili, e Massimo Ferlini, presidente della Compagnia delle opere di Milano. Ilsussidiario.net ha intervistato Aldo Bonomi per presentare in anteprima i contenuti della ricerca.



Gli immigrati per Milano sono innanzitutto una risorsa o un problema?

Sono una risorsa e una realtà con valore di cittadinanza. Lo si deduce chiaramente dal libro di Blangiardo, che ha un grande dono: non parla del fenomeno migratorio in termini generici e complessivi. Spesso chi affronta il tema con superficialità lo utilizza per affermare una tesi piuttosto che un’altra, ma sempre in modo indifferente. Da una parte c’è chi sostiene in modo buonista che l’immigrazione è una risorsa, spiegando che senza di loro si fermerebbero le nostre piccole imprese e non avremmo più servizi sufficienti. In altre parole, queste persone valorizzano la funzione dell’immigrato lavoratore.



Per quale motivo questa posizione non la soddisfa?

Perché chi la sostiene dimostra di non capire che il migrante non è solo un lavoratore, ma una persona a tutto tondo che si porta dietro culture, religioni, forme dell’abitare e del vivere. Anche la tesi buonista quindi non tocca i veri nodi del problema come la cittadinanza. D’altra parte i “superficiali del rancore” sostengono che gli immigrati vanno benissimo per lavorare come schiavi, ma che le nostre culture sono tra loro incompatibili. E quindi sono “razzisti differenzialisti” per quanto riguarda il fenomeno migratorio come cittadinanza, e “sfruttatori benevoli” per ciò che riguarda la forza lavoro.



Mi sembra di capire che nessuna delle due posizioni è corretta …

Esatto, mentre la ricerca di Blangiardo compie uno zoom su Milano che va molto più in profondità. Andando a vedere etnia per etnia, zona per zona, come Milano ha affrontato il fenomeno migratorio e come la fenomenologia si è spalmata sul territorio. L’immigrazione infatti non crea problemi dentro le mura dell’impresa, perché finché l’extracomunitario fa l’operaio, il cameriere o la badante, non disturba nessuno. Le difficoltà nascono tutte sul territorio, ogni volta che tocca le forme dell’abitare e della convivenza. La ricerca induce quindi una riflessione profonda su questi aspetti, e se vogliamo ragionare sulla Milano che verrà dobbiamo partire proprio da qui.

 

Quale modello di integrazione auspica per l’Italia?

 

Abbiamo visto che il processo di ghettizzazione delle etnie, portato avanti da Francia e Gran Bretagna, non ha portato a risultati soddisfacenti. E rispetto a questi Paesi la situazione in Italia è meno drammatica, anche se i conflitti metropolitani a Milano non mancano: basti pensare al problema dei cinesi in via Paolo Sarpi e alla situazione di via Padova. Entrambi devono farci molto riflettere, perché nel corso dei recenti tumulti di via Padova sono state usate parole pesanti come “rastrellamento” e “coprifuoco”. Per fortuna la società civile ha poi cercato di riappacificare gli animi, riuscendo a evitare il peggio. Resta il fatto che via Padova è un quartiere che di fatto anticipa la Milano che verrà: per rendersene conto basta percorrerla in macchina, da piazzale Loreto alla Casa della Carità di don Virginio Colmegna.

 

Come rispondere a situazioni come quella di via Padova?

 

L’immigrazione è un fenomeno di nuovi cittadini, che devono vivere e convivere dentro un’area urbana in grande mutazione. Gli immigrati sono certamente una risorsa, ma rimettono anche in discussione le forme di convivenza, di sviluppo cittadino e la stessa urbanistica. Utilizzando un termine coniato dall’attuale arcivescovo di Milano, Angelo Scola, quella che si sta affermando è una società “meticcia”. Non dimentichiamoci tra l’altro che l’Expo porterà in Lombardia centinaia di Paesi: questa ricerca è utile anche per non arrivare al 2015 sprovvisti di strumenti culturali, ma con una Milano che ha una coscienza del fenomeno migratorio e riesce a disegnare la città che viene.

 

In quale misura fattori come livello d’istruzione, professione svolta, Paese d’origine e appartenenza religiosa incidono sull’integrazione degli immigrati?

Di recente ho lavorato a una ricerca sul fondo Famiglia e lavoro del cardinale Dionigi Tettamanzi, e ho capito che oggi non si può parlare della società milanese, semplicemente avendo come unico punto di riferimento il maschio adulto bianco ed europeo. Se non si ragiona incrociando professione, genere ed etnia, non si comprende nulla dei grandi cambiamenti che stanno avvenendo. Non si può più dire, come si faceva un tempo, “dimmi che lavoro fai e ti dirò chi sei”. Occorre anche prendere in considerazione la cultura di riferimento, l’etnia e la provenienza geografica. Ovviamente occorre evitare le prese di posizione fondamentaliste alla Samuel Huntington, il teorizzatore del “conflitto di civiltà”. Ma si deve anche prendere atto del fatto che ogni civiltà, società, cultura ha le sue tradizioni e modi di essere. E quindi se si vuole tenere insieme una società così variegata, il modello non deve essere il “frullato” bensì la “macedonia”.

 

Che cosa intende dire con questa metafora?

 

Secondo una certa mentalità, esiste una cultura e una forma dominante cui tutti si devono adeguare, e alla fine deve uscirne una “poltiglia grigia” in cui tutti quanti sono uguali. Altra cosa è il modello di chi pensa che la società meticcia sia composta da tanti gruppi molto diversi tra loro, e che ciò che occorre fare sia tentare di tenerli insieme senza confonderli. E questo secondo modello è molto più adeguato alla realtà.

 

(Pietro Vernizzi)