Lunedì 12 dicembre al Teatro Dal Verme si aprirà il ciclo di incontri organizzato dal Centro Culturale di Milano dal titolo Le forze che muovono la Storia. I cercatori Nietzsche, Dostoevskij, Peguy. Ad iniziare saranno l’attore Franco Branciaroli, il filosofo Costantino Esposito e il regista e drammaturgo Giorgio Pressburger, che presenteranno il filosofo Friedrich Nietzsche.
Abbiamo intervistato il professor Esposito per aiutarci ad entrare nel vivo del primo incontro di questa rassegna, iniziando a porre l’accento su alcuni punti del pensiero di Nietzsche che non smettono di interrogarci per la loro forte risonanza nell’attualità.

Nella cultura e nella letteratura ci sono punti cruciali che lasciano in noi un segno, per la capacità che hanno di interrogare la nostra ragione. In che maniera lei crede possa essere utile riprendere la figura di Friedrich Nietzsche, e perché?



Senza dubbio, per seguire il titolo della vostra rassegna, Nietzsche è un grande cercatore. Quello che rende interessante, direi drammaticamente interessante, il suo pensiero è il modo in cui Nietzsche ha fatto per così dire «scoppiare» la crisi di una lunga tradizione filosofica (quella che egli fa risalire all’etica socratico-platonica e alla tradizione ebraico-cristiana), intendendola come una malattia o una «patologia» da cui cercare di guarire. Ma con l’esito paradossale che il suo tentativo di guarigione ha in realtà trasformato la patologia – vale a dire la crisi dei fondamenti della realtà e delle motivazioni dell’agire – in una nuova «fisiologia» del pensiero.



Come è potuto avvenire questo?

Il fatto è che per Nietzsche non si trattava soltanto di una crisi di tipo culturale, ideologico o etico (quella che noi siamo soliti chiamare una decadenza o una perdita dei «valori»), ma di una crisi specificamente «metafisica», che intacca cioè il nostro modo di intendere, vedere e percepire l’essere del mondo, della storia e di noi stessi. Ciò che dunque rende drammatico il «cercare» di Nietzsche è il fatto che il suo stesso percorso, e infine le soluzioni della crisi che egli indica, portano alla definitiva trasformazione di questa crisi metafisica in una sorta di ombra lunga e permanente lasciata in eredità all’intero pensiero del Novecento.



«Io per primo ho scoperto la verità», diceva Nietzsche. Ma in che cosa consiste questa verità di cui lui parla? E che rapporto aveva il filosofo con il concetto di verità?

Nietzsche è generalmente inteso come colui che ha distrutto i valori della morale tradizionale, mentre a mio avviso il suo problema fondamentale non era di ordine etico, ma innanzi tutto di ordine conoscitivo. Quello che egli descrive quando fa la genealogia della morale e tenta di scomporre le antiche certezze, mostrando che esse non sono affatto verità assolute ma delle mere costruzioni storico-ideologiche, è una radicale perdita di evidenza della realtà, un indebolimento estremo della verità, proprio perché riesce a penetrare nel fallimento dei grandi sistemi filosofici dell’Ottocento, dall’idealismo al positivismo allo storicismo. Il grande problema, quindi, non è come dobbiamo comportarci di fronte a questa crisi, ma che cosa effettivamente c’è, e di che natura è.

Dove lo si può vedere?

Quando Nietzsche tenterà di compiere una «tra svalutazione» di tutti i valori precedenti attraverso i concetti di «superuomo», di «volontà di potenza» e di «eterno ritorno dell’uguale» predicati da Zarathustra, egli vorrà ridefinire niente di meno che la struttura ontologica della realtà. Naturalmente lo stile che Nietzsche sceglie per il suo pensiero è in gran parte uno stile distruttivo, svalutativo; ma al tempo stesso, dentro il gesto decostruttivo si mostra un’attesa radicale di significato e di verità che è tanto più forte quanto più esplicitamente viene da lui negata. In Ecce homo egli afferma: «Io per primo ho scoperto la verità, perché io per primo ho sentito la menzogna come menzogna». Ma questa affermazione può essere intesa come il segno di quell’«istinto» della verità (come egli stesso lo chiama) grazie al quale soltanto egli poteva scoprire che la verità è stata contraffatta…

…Nonostante fosse attivamente impegnato a decostruire il senso di ciò che è «vero» secondo la tradizione occidentale?

Sì. E infatti arriva a chiedersi «da dove mai proviene questo enigmatico impulso alla verità?» (Verità e menzogna in un senso extra-morale). Nella mia lettura, Nietzsche è colui che ha cercato in tutta la sua opera di rispondere a questa domanda, sebbene tutte le sue spiegazioni non riescano mai ad esaurirla, e tale domanda sulla verità (come domanda di verità) resta essa stessa un enigma conficcato nel corpo del suo pensiero. Come l’apertura oggettiva della ragione che rispunta sempre da ogni tentativo di spiegazione o di distruzione.

L’idea di vita per come è vissuta nella società moderna e il desiderio come totalità sembrano due elementi contradditori che non smettono di scontrarsi nella coscienza dell’uomo. In Nietzsche questa lotta intestina sembra sfociare nella morte di Dio. Se per essere veri occorre fare fuori l’aspirazione ultima, cosa rimane dell’Io?

Ne La gaia scienza Nietzsche afferma che questo «impulso verso il vero e il reale» gli fa rabbia: è come se si sentisse inseguito, perseguitato da questo desiderio di un significato ultimo. La soluzione radicale e tragica che egli adotta di fronte a questo problema è quella di riformulare totalmente l’idea di uomo come qualcosa di «dato», e più vertiginosamente dell’esserci stesso della realtà come un dato, cioè come dipendente dall’Essere. Da questa lotta contro l’esser-dato di sé nasce la sua intuizione sia dell’idea di superuomo sia della volontà di potenza. Queste idee non vanno tanto intese nel senso di un vitalismo superomistico (sebbene in Nietzsche non manchi neppure una giustificazione della supremazia anche violenta dei «signori» sugli «schiavi»), ma ad un livello più radicale, metafisico, come dicevo. L’uomo deve concepirsi non come qualcuno che riceve il proprio essere, ma in termini di pura volontà, cioè come qualcuno che vuole assolutamente se stesso: assolutamente, cioè sciolto da ogni legame di provenienza.

La realtà come «dato» dice infatti sempre, inevitabilmente, il rapporto con chi la dà, e che la precede e la eccede.

Esatto. In Nietzsche, invece, anche ciò che è passato – ciò che nella concezione abituale è irreversibile perché viene prima di me – deve diventare qualcosa di voluto da me. Questo non vuol dire pretendere di modificare ciò che è già successo, né che un singolo uomo possa aver deciso cosa è successo prima di lui, ma significa che bisogna estirpare l’idea che si dipenda da altro se non dall’atto del proprio volere. In uno dei più celebri passi nietzscheani, nella Gaia scienza, «l’uomo folle» irrompe nel mercato gridando «Cerco Dio! Cerco Dio!», e di fronte alle risate di tutti coloro che ormai hanno già smesso di credere in Dio, annuncia che «Siamo stati noi ad ucciderlo: voi e io! Siamo noi tutti i suoi assassini!». Ma la cosa più strana è che, pur sapendo della morte di Dio, l’uomo folle (e non a caso, folle) è l’unico che continui a cercarlo: ciò che egli cerca è la nuova definizione dell’uomo, nell’acuta consapevolezza che, una volta avvenuta la morte di Dio, accade inevitabilmente la morte dell’io: senza più rapporto, senza più concepirsi come dato, il soggetto non ha più consistenza.

In questo, quindi, è il rapporto stesso con il tempo che viene a modificarsi…

Il nocciolo segreto della dottrina di Nietzsche è proprio in quel concetto arduo che è l’eterno ritorno dell’uguale. Il problema è che proprio in quanto si deve decostruire l’io e la realtà come dato, bisogna ripensare l’accadere del tempo e nel tempo. Nella concezione cristiana il tempo non era più visto a partire dal ciclo continuo della natura (nascita, svolgimento morte), e cioè come il movimento di successione di istanti misurabili, uno dopo l’altro, in senso quantitativo, ma era connotato da un accadimento inedito, quello della venuta di Cristo, che dà una «qualità» assolutamente nuova al tempo. A partire da quella venuta, il tempo diventa «storia», movimento progressivo verso il ritorno finale di Cristo. Ebbene, è proprio a questo livello che Nietzsche intende portare la sua sfida più ambiziosa.

Come cambia, nel pensatore tedesco, il concetto di tempo?

Egli lo riformula, ritornando alla circolarità naturalistica del mondo greco. Nell’eterno ritorno dell’uguale l’unico «senso» – sia come significato che come direzione – del mondo e delle cose è quello della loro eterna ripetibilità, cioè il fatto di appartenere al ciclo assolutamente necessario della natura. Questa concezione implica l’idea per la quale l’unico significato delle cose è il fatto che esse sorgano e ritornino incessantemente nella grande ruota del tempo, e che il non vi è un’origine, né uno «scopo» o un «compimento» al di fuori della necessità per cui ogni cosa è quello che è, e basta.

E oggi? Che implicazioni ha avuto la lettura di Nietzsche nel pensiero contemporaneo?

Se consideriamo ciò che abbiamo detto fin qui ci troviamo di fronte ad un paradosso: Nietzsche, che da tanti è visto come un momento di ribellione libertaria rispetto all’opprimente tradizione filosofica platonico-cristiana, si rivela in realtà come il teorizzatore più convinto della ferrea necessità della natura. Per lui la necessità assoluta di ciò che c’è resta l’ultima parola. Da questo punto di vista Nietzsche è una delle porte da cui si entra nella più diffusa ideologia del tempo presente, vale a dire la riducibilità di tutto l’umano ad un piano puramente naturalistico, in cui gli uomini sono chiamati, anche grazie alla potenza tecno-scientifica, a costruire e a modellare la propria natura…

E cosa può dire della sua pretesa di realizzare attivamente il «nichilismo europeo», mediante la «forza violenta della distruzione» nei confronti dei vecchi valori morali?

Se da un lato è apparsa a molti come un momento di emancipazione della cultura occidentale, resta a mio parere segnata dall’impossibilità di pensare la libertà e la storia degli uomini: «nella realtà lo scopo è assente… Si è necessari, si è un frammento di fato, si appartiene al tutto, si è nel tutto», ed è in questo che consiste «la grande liberazione». Appunto, una liberazione dal significato e dalla stessa libertà. Il grande cercatore pare arrestarsi qui, sospendendo la sua domanda sull’enigma del nostro impulso verso il vero. Ma pare soltanto: che soluzione è mai, infatti, quella che si afferma distruggendo la domanda da cui è nata? Il desiderio del vero non attesta forse che c’è qualcosa di altro rispetto alla potenza del volere? Nietzsche ha dovuto in qualche modo pagare in prima persona, e sino alla follia, questa contraddizione. Eppure, contro tutte le «normalizzazioni» borghesi del nichilismo odierno, se facciamo attenzione possiamo ancora ascoltare – come un’eco che viene da quell’impulso profondo – la forza e la sfida del suo grido.

(Paolo Campagnoli)