La strage della Banca dell’Agricoltura, in piazza Fontana a Milano, il 12 dicembre del 1969 fu per l’Italia della Repubblica una “perdita dell’innocenza”. Il Paese aveva concluso il suo miracolo economico e la sua completa ricostruzione postbellica da pochi anni. C’erano già state avvisaglie tragiche, come in occasione dei morti del luglio 1960. Si vedevano i segnali di una società che, dopo la coesione e la compattezza dell’immediato dopoguerra, si immergeva e si divideva ideologicamente nella “guerra fredda”. Si poteva quasi sentire l’allarme di una scomposizione sociale, fin nel 1963-1964, con scioperi duri e contrasi pesanti tra le parti sociali. Poi arrivò il “buco nero” del 1968, importato dai campus universitari americani per la guerra del Vietnam, passato per le strade di Berlino e di Parigi.
Ma la strage del 12 dicembre fu un’altra cosa. Fu il passaggio nel tunnel della paura, della violenza programmata, non più episodica. Diventò una data tragica non solo per quei poveri morti annientati da una bomba all’interno di una banca, ma per un Paese che si incamminava verso un ventennio dove stragismo e terrorismo scandirono la storia degli italiani e portarono, probabilmente fino ai nostri giorni, divisioni profonde e insanabili.
Il fatto ancora più inquietante, se è possibile, fu che quella strage sparse veleni di ogni tipo, con programmi ideologici di fanatismo irresponsabile. Da lì, da quel tragico giorno, alcuni scelsero la “lotta armata”; da quel giorno le visioni di complotti, delle mani sporche servizi segreti, italiani ed esteri; da quella tragica giornata nacquero teorie sull’antistato, sul controstato. Tutti teorizzavano una sorta di apocalisse su supposizioni e basandosi sul famoso “cui prodest”. Il disastro che nacque da quell’atmosfera è presente ancora ai giorni nostri: nessuna verità giudiziaria è ancora emersa nitidamente da quella infame strage. In una sequenza quasi delirante si imboccò prima la “pista anarchica” (con conseguenze tragiche per Giuseppe Pinelli e qualche anno dopo per il commissario Luigi Calabresi), poi la “pista nazifascista della cellula veneta” di Freda e Ventura, poi quella dei servizi segreti italiani, poi della Cia, con qualche retropensiero al Kgb.
Una marea di inchieste, di documenti, di sentenze che poi sono state riviste e, a 42 anni di distanza, un pugno di sabbia in mano, con qualche strascico di inchiesta ancora in incubazione oppure non dimostrabile. Con una montagna di libri carichi di indizi, con infinite commissioni parlamentari che non hanno risolto praticamente nulla. Eppure dietro a quella strage c’era una mano criminale, che ancora oggi non si comprende se avesse un piano di destabilizzazione per una svolta autoritaria guidata dalle stanze dello Stato o una strategia eversiva, maturata solamente nella esaltazione-disperazione di un delirio ideologico. Chi ancora oggi trae delle conclusioni perentorie arricchisce solo la confusione, non la ricerca della verità. Dare solamente giudizi di carattere storico, senza decifrare l’enigma giudiziario, è una forzatura.
E’ una scelta ideologica, non una scelta per la verità di quel fatto orrendo. Se solo si fotografano due date, il 12 dicembre 1969 (strage di piazza Fontana) e il 9 maggio 1978 (ritrovamento del cadavere di Aldo Moro) si ha lo “spaccato” di una logorante “guerra civile” lunga dieci anni, di carattere ideologico, con episodi che possono avere avuto protagonisti di estrema destra e di estrema sinistra, cresciuta sostanzialmente tra le pieghe di “storiacce italiane”. C’è ora da domandarsi se quel clima di odio ideologico e politico, quello schematismo brutale e violento, possa di nuovo incistarsi come un cancro in una società italiana come quella di oggi, attraversata da un profondo disagio sociale, da una disaggregazione sempre più evidente di fronte a una delle più gravi crisi economiche della storia. Nuclei di eversione violenta ci sono ancora.
I protagonisti sono giovani che si scagliano contro i segni della finanza e dell’economia, che prendono come bersaglio i processi di internazionalizzazione di globalizzazione. Emergono anche embrioni di nuove ideologie che ricalcano, nell’azione, gli antichi cliché e lo schematismo dell’annientamento dell’avversario. Negli ultimi anni abbiamo visto all’opera il nichilismo dei “black bloc”, in questi ultimi giorni i pacchi-bomba, i proiettili di pistola spediti come avvertimento.
Ritenere al momento che, a causa di una grave crisi economica e sociale, stia formandosi un fronte di nuova “lotta armata” o di “nuovo stragismo”, può essere prematuro. Ma il rischio che una crisi economica provochi nuovo nichilismo o crei nuovi deliri ideologici non è da trascurare. Proprio questo rischio dovrebbe consigliare a tutti l’importanza della verità sul tragico passato che gli italiani hanno vissuto. Le mezze verità, le semplificazioni faziose, i giudizi storici approssimativi creano solo confusione, luoghi comuni, astrazioni insensate. In questo momento tutt’altro facile, l’Italia di tutto questo ciarpame non ha proprio bisogno,