Una comunità cittadina non si inventa in un istante. Cresce e matura in una storia: la regola generale vale anche per la realtà di Milano.
Fin dai primi passi della sua affermazione come centro urbano di prim’ordine, nel mondo della tarda romanità e poi nel corso della lenta ricostruzione medievale, le forze che essa stringeva nella solidarietà di una vita comune hanno avuto bisogno di elaborare un patrimonio di simboli e di valori per cementare la loro coesione e dare significato alla necessità di convergere in un unico ‘corpo’ che si ritagliava uno spazio nell’universo di cui Milano era parte. Per sviluppare fino in fondo la sua vocazione, la città ha dovuto prendere coscienza di sé, fino ad arrivare a rappresentarsi in modo consapevole come un insieme organico. Ha elaborato una memoria collettiva e dato forma a una identità ricca di mille implicazioni. Riannodando un legame con le sue radici più remote, a questo compito cercavano di rispondere le celebrazioni poetiche e le descrizioni letterarie, i rituali del pubblico cerimoniale e le proiezioni nello specchio delle immagini del tipico contorno di una forma materiale rievocata dalle vedute o dalle mappe topografiche, all’inizio solo allusive e grossolane. Con strumenti e linguaggi diversi, la cultura alimentata dalle élites meglio dotate si incaricava di esaltare le «grandezze» di una Milano che stava al centro del cantiere norditaliano, e che proprio per questo, in forza della ricchezza di espressioni di cui il suo ruolo si era caricato, si concepiva nei termini di una «seconda Roma».
Era una «grandezza» che già molto prima di Bonvesin de la Riva (De magnalibus urbis Mediolani, fine sec. XIII) si era tradotta nello splendore delle architetture civili e prima di tutto religiose, nel tesoro di un giacimento straordinario di reliquie e di segni sacri, nell’abbondanza copiosa di popolazione, nella vitalità di una energia economica, politica e sociale che anche sotto i colpi delle crisi più dure sapeva trovare nuove strade per ricomporsi e generare una parabola di ripresa. Entrati nel cuore dell’età moderna, questa lunga tradizione dell’autocelebrazione cittadina ha incorporato gli accenti originali imposti dall’evoluzione di circostanze storiche ormai profondamente mutate. Ha potuto dilatare il suo spettro di attenzioni, si è articolata ancora di più nella sua capacità di tradursi in discorso scritto e in produzione di icone figurative. Dall’invenzione della stampa in poi, si è anche appropriata di un canale potentissimo per diffondere verso il basso della scala sociale gli esiti più abbordabili di una cura dell’immagine di sé che, in termini attuali, potremmo ricondurre a un’opera corale di ‘propaganda’ e di costruzione del consenso intorno al destino storico della città di Milano.
Tra Cinque e Seicento, la memorialistica cittadina conobbe una stagione di febbrile aggiornamento, alla luce delle svolte più significative che lasciavano la loro impronta sul tessuto della vita locale, tra sviluppi dell’antico orgoglio municipale, decollo del patriziato, inizi dell’egemonia spagnola e riforme della vita ecclesiastica trascinate dal disegno riformatore di Carlo Borromeo. È in questo contesto che la minuziosa «descrizione» resa ora per la prima volta disponibile da Marzia Giuliani fu gradualmente assemblata, senza però confluire in una compilazione a tal punto lineare e coerente da meritare di riversarsi in un libro vero e proprio, destinato alla pubblica diffusione.
Le Antichità di Milano – questo il titolo pensato per dare lustro alla meticolosa rassegna delle strutture, civili e religiose, che sostenevano l’organismo complesso e stratificato della vita della città – vanno dunque accostate come la punta emergente di una tradizione consolidata. Misurandosi con questo documento singolare della memoria storica di Milano al tempo di san Carlo e di Federico Borromeo, diventa possibile entrare nel cuore del laboratorio in cui si muovevano gli uomini di cultura del passato che hanno confezionato le scritture da cui sono scaturite anche le nostre Antichità. Si individuano i testi oggetto di esplicita citazione. Si avvia un confronto tra i materiali di partenza e il riuso che ne viene fatto inglobandoli nella materia di un censimento descrittivo dell’intera città, basato su un nuovo impianto. Affiorano fenomeni di prestito e di riciclaggio, approfondimenti originali, apporti inediti di conoscenze inattese. Si riesce così a reinserire le Antichità nel «comune universo culturale» che ne è stato il retroterra di ispirazione. Quello che a prima vista potrebbe apparire come un unicum eccezionale ritrova il suo posto nella genealogia di una erudizione soprattutto, ma non esclusivamente, ‘sacra’, interessata a vescovi e chiese, a feste, indulgenze, cerimonie, legati di messe, ma anche a ospedali, a elargizioni caritative, a scuole e collegi, a confraternite di laici. È questa la foresta intricata in cui il redattore delle Antichità sapeva muoversi in modo agile, integrando le informazioni ricavate dai libri con l’osservazione pratica sul campo. Tra la biblioteca e la piazza, si configurava un’esperienza diretta delle cose che poi il redattore del manoscritto fotografava nelle sue ‘memorie’, consegnate in eredità ai posteri.
Resta un mistero insoluto l’identità precisa di chi ideò il progetto delle Antichità di Milano e lo portò avanti con un impegno prolungato nel tempo. Ma se sfuma la possibilità di rendere onore ai meriti dell’autore in carne e ossa, rimane per tutti l’opera in cui si condensò il suo amore per i tesori artistici e le glorie, non solo politiche e mondane, della grande comunità di popolo di cui egli si riconosceva figlio devoto.