La situazione del disagio urbano e della emarginazione nella nostra città ha raggiunto livelli davvero notevoli, se – da un rapporto periodico della Caritas ambrosiana uscito un paio di mesi fa – si ricavano dati ai quali riflettere su episodi quali, ad esempio, l’incremento di piccoli furti nei supermercati, specie per generi alimentari. E’ chiaro che bisogna vedere le cose con occhio critico e attento nell’interpretare i fenomeni.  Ma indubbiamente credo che siamo chiamati a riflettere e prendere atto di una situazione a dir poco non certo facile.



Il dott. Rabbuffi che mi ha preceduto ha adottato l’immagine, efficace e  realistica, di una città incattivita, di una Milano dove il tradizionale ‘cuore in mano’ è molto difficile da ritrovare.

Penso, però, malgrado tutto, che forse esistano germi di  speranza. Qualche giorno fa la mia Università e la Casa della Carità hanno varato un progetto di studio e di azione sociale.  “Dai casi ai diritti” si intitola così la convenzione firmata il 12 dicembre 2011 dalla Fondazione Casa della carità e dall’Università degli studi Milano-Bicocca. Le due realtà collaboreranno unendo l’esperienza di chi ogni giorno affronta i casi e le competenze di chi studia i diritti dal punto di vista giuridico, sociale, statistico, economico.  Gli ambiti sui quali il progetto si concentrerà sono quelli caratteristici del degrado e del disagio urbano in questa città:  casa e territorio, minori, migranti, lavoro e fasce deboli, carcere, salute e servizi. Sempre presso la Casa della Carità opera il SOUQ, il Centro studi sulla sofferenza urbana,  che ha prodotto diversi documenti, annuari, iniziative, studi, tra i quali un recente volume su sofferenza urbana e disagio mentale curato da Benedetto Saraceno.  Dobbiamo vedere queste e simili iniziative solo come segnali della gravità della situazione o anche come spie di qualcosa di concreto che si mette in movimento?  Sembra chiaro che ci sono entrambi gli elementi.



Credo però anche che un sano realismo, purtroppo non precisamente ottimistico,  si imponga per tante ragioni: non ultime le circostanze di crisi, ma soprattutto le prospettive di crisi, nelle quali ci troviamo immersi. Non si può certamente negare quella realtà di accresciuta diseguaglianza sulla quale hanno portato la nostra attenzione la relazione di apertura di Brandolini e anche gli altri interventi.  In questi giorni anche il nuovo Arcivescovo di Milano, il Card. Scola, se da un lato si è mostrato assai cauto nel censurare il prolungato appoggio acritico di forze cattoliche a una parte politica visibilmente assai povera di ideali cristiani  (un fenomeno  vistoso proprio qui a Milano), non ha però, d’altro canto, esitato a denunziare la realtà che ci sta di fronte e ha parlato di una situazione sociale e politica terribilmente deteriorata, fino a confessare il timore che la tensione sociale possa sfociare in forme di violenza che certo la più parte di noi vorrebbe evitare.  E’ chiaro che la crisi è  anche una crisi morale, esito di un indebolimento al quale non si è saputo opporre la necessaria resistenza  rinunziando così in partenza alla ricerca di spunti creatività, di immaginazione, di coerenza ideale, di vitalità.  Si è preferito vivere all’ombra dei potenti di turno, paghi di  servili lip service, per poi voltare  la testa dall’altra parte facendo finta di non vedere il resto.  Lo spettacolo di divisione interna e di sostanziale impotenza del mondo cattolico in Italia è forse tra i più penosi che sia dato di vedere, solo velato dall’inconcludente episodio di Todi.



La crisi morale di autoalimenta anche per effetto della precaria situazione di Eurolandia. La politica economica del nuovo governo Monti oggi, Natale 2011,  mira a renderci capaci  (nelle parole di Monti) di ripresentarci ‘a testa alta’  di fronte all’Europa. Ma come nasconderci il fatto che siamo di fronte a un’Europa  che, ancora  nei recenti vertici di inizio dicembre 2011,  non ha saputo prendere decisioni coraggiose per porre rimedio a una condizione di crisi galoppante nella quale è  il sistema Euro a rivelarsi debolmente difeso?  Il quesito ci interessa particolarmente  anche perché, all’interno del debole sistema Euro ormai vistosamente sotto attacco, al nostro paese è toccato lo scomodo  ruolo di anello debole.

Credo che questo sia un punto importante  per la nostra Tavola rotonda per le conseguenze che ne derivano per le fasce deboli della popolazione, specie nelle grandi città;  ed è un punto  sinora non emerso con sufficiente forza dalla discussione.

Consentitemi di sintetizzare  la situazione in cui ci troviamo, dove in una condizione sociale già pesantemente deteriorata, la politica economica abbatte la sua scure senza riuscire a dare speranze sufficienti circa  la tenuta complessiva del sistema di cui siamo parte.  In particolare, nel documento uscito come Dichiarazione dei Capi di Stato o di Governo della zona Euro dalla riunione del Consiglio europeo del 9 dicembre 2011 a Bruxelles, viene stabilita per ciascun paese una regola di pareggio di bilancio nuda e cruda;  non si tiene per esempio alcun conto della distinzione tra  spese correnti e spese per investimenti, la c.d. golden rule.   Per di più si aggiunge che questa regola  (e non la golden rule)  dovrà essere  inserita “negli ordinamenti giuridici nazionali degli Stati membri a livello costituzionale o equivalente”, con “un meccanismo automatico di correzione che si attiverà in caso di scostamento”. In realtà ci troviamo in una crisi (in Europa più che altrove)  dovuta a sovraespansione di indebitamento per spese correnti che di per sé reclama una qualche misura che favorisca le spese per investimento.  Riconosco che è un tema non facile:  è però ineludibile.

Inoltre, sempre nello stesso documento, viene del tutto esclusa la modifica dei compiti della Banca Centraledi Francoforte. Viene invece  istituito un meccanismo di stabilità, denominato MES, che in sostanza condurrà a destinare somme ingenti per la stabilizzazione finanziaria. In mancanza tuttavia di una clausola di salvataggio adeguata, nessuna somma (per quanto ingente) potrà riuscire a riattivare il meccanismo di fiducia esistente in presenza delle vecchie banche centrali nazionali.  Infatti tale meccanismo non dipende dalle somme di fatto stanziate, ma dalla esistenza di un potenziale di utilizzo illimitato. 

Si esclude – d’altra parte – una politica fiscale europea così come si esclude la creazione di un debito garantito dall’Europa, della quale Europa evidentemente non si vuole in alcun modo sentir parlare come di una  realtà  davvero unitaria e comune.

La logica seguita è in perfetta continuità con un passato che trova il suo punto di appoggio nel Trattato di Maastricht. La logica è semplice: se tutti sono virtuosi, tutto va bene.  E se qualcuno ha ‘sforato’, si arrangi ossia si dia da fare a metter le cose in  ordine.  E’ la logica della bacchetta tedesca che mette in castigo la politica nazionale in nome del pareggio di bilancio.  E’ una logica d’altra parte pienamente condivisa dallo stesso Monti, una logica che lavora per una svolta storica dalla quale la cattiva politica riceva il suo meritato castigo. “Devo dire – scriveva p.es. Monti, con la consueta lucidità,  in un suo editoriale sul  Corriere della sera il 30 ottobre 2010 – che come convinto sostenitore di un’«economia sociale di mercato altamente competitiva », quale è voluta dal Trattato di Lisbona, sarei un po’ preoccupato da un mercato privo, da un lato, di serie regole e di efficaci autorità di enforcement; dall’altro esposto a una più o meno esplicita «superiorità della politica »: terreno ideale, temo, per abusi privati, abusi pubblici e loro varie combinazioni”.

La denunzia è appropriata. Vediamo ora le soluzioni che scaturiscono da questa logica.  E’ proprio qui, in quei casi cioè dove la politica ha indotto a ‘sforare’, che  (come ha più volte affermato anche in passato lo stesso Monti) la crisi diventa un’opportunità.   Ecco qui la condanna di quella democracy in deficit,  la democrazia in deficit, ampiamente analizzata dalla Public Choice del  Nobel Buchanan in tempi non sospetti, venuta ora alla moda sotto altri nomi.  “Qual è il vero costo della politica? – si è chiesto Monti nel suo recente discorso al Parlamento –  È che chi governa prenda decisioni miranti più all’orizzonte breve delle prossime elezioni che all’orizzonte lungo dell’interesse del Paese, dei nostri figli, dei nostri nipoti”.

Fuori i politici!, giustamente si tuona,  che hanno portato al dissesto gli stati  sperperando come dannati per acquistarsi il favore dell’elettorato!   Arrivano i governi ‘tecnici’ il cui compito è però, naturalmente, politico ed  è appunto quello di  fare precisamente quello che i partiti politici non sono stati in grado neppure di cominciare ad attuare, ma che un’opinione pubblica ormai priva di adeguata rappresentanza evidentemente percepisce e  reclama di fronte alla emergenza finanziaria.  In Italia si tratta in primis di due cose: 

. porre fine a quello che potremmo chiamare l’accaparramento pensionistico (perpetrato  ai danni delle generazioni a venire attraverso il sistema della ripartizione) con un pieno e inequivocabile ritorno al principio della capitalizzazione,  e  .  riformare  (cioè liberalizzare)  il mercato del lavoro a partire dalla cancellazione dell’art. 18 del c.d. ‘Statuto dei lavoratori’  (quello che è stato a lungo la gloria della maggioranza rumorosa di un tempo).  Ecco in pillole la filosofia dei ‘compiti a casa’ del Governo Monti.

In queste condizioni e con questa logica, appare del tutto evidente il rovescio della medaglia: E’ chiaro che non solo il Governo Monti, ma i Governi nazionali d’Europa sono oggi spinti a politiche ferocemente restrittive che rappresentano una minaccia non piccola per la stabilità dell’Occidente. Quello che più manca è una visione sufficientemente convincente e articolata del rapporto tra misure di breve per fronteggiare la crisi finanziaria ed economica ed assetto di lungo periodo per la stabilità del  sistema.  

 “È un peccato – scriveva Monti sul Corriere della sera il 14 luglio scorso, dopo i richiami pesanti provenienti dall’Europa – che ci sia voluto un «forte attacco» da parte di «una cospirazione di speculatori» – così ritengono molti italiani – perché il sistema politico avesse un soprassalto di consapevolezza dell’interesse generale e di senso di responsabilità comune”.  E’ proprio qui, seguendo il filo logico adottata da Monti,  che la crisi viene a rappresentare  una notevole  opportunità da cogliere. Tutto questo potrà porre  fine – si domanda allora Monti – alle pene dell’Italia? “Certamente no” è la risposta: il soprassalto non basta. “È necessario unriorientamento fondamentale della politica economica dell’Italia” (c.vo agg.). Accanto alla “disciplina fiscale”, il riorientamento fondamentale necessario per l’Italia riguarda le misure per  “far aumentare la produttività complessiva dei fattori produttivi, la competitività e la crescita; e ridurre le disuguaglianze sociali”. Senza allentare la disciplina di bilancio,  occorre  rimuovere  “gli ostacoli strutturali alla crescita. Essi sono numerosi e ben radicati – prosegue Monti – in molti settori. Una cosa hanno in comune: derivano dal corporativismo e da insufficiente concorrenza. Questo è dovuto in parte al fatto che l’Autorità garante della concorrenza e del mercato, e altre autorità di regolazione, non hanno sufficienti poteri, indipendenza effettiva e risorse; in parte ad una fitta selva di restrizioni alla concorrenza introdotte negli anni da provvedimenti legislativi e amministrativi”.  Si tratta di  “rendere l’economia europea più competitiva attraverso una maggiore integrazione dei mercati, compresi investimenti nelle interconnessioni per realizzare davvero il mercato unico”.  E’ una prospettiva che – conclude Monti –  certo “non è vista con favore dalle culture politiche tradizionali in Italia, di destra e di sinistra. Ma questa è la prossima grande sfida per l’Italia, come mette in luce anche la Commissione Europea nelle sue recenti raccomandazioni”. 

E’ sempre bene fare appello alla virtù.  Ma sappiamo che può non bastare a reggere un sistema attraverso condizioni di navigazione fattesi turbolente.  Nel caso nostro lungi dall’avviare un serio riconoscimento che il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità sono falliti, se ne inasprisce il tenore.  Ma il problema è che, con il varo della moneta unica,  si è messa davvero in campo una sfida senza precedenti: proprio una moneta  ‘unica’!  Come Monti stesso aveva argomentato, con toni forse eccessivamente celebrativi, in un suo ‘storico’ editoriale del 1 gennaio 2002. E’ infatti molto difficile pensare di tenere insieme paesi indipendenti con la camicia di forza della moneta. E’ una soluzione ‘tedesca’ da un lato e iper-libertaria dall’altro.   Tedesca per la algidità della idea  che, se ciascuno è virtuoso, tutto va bene per tutti (falsa idea di accattivante semplicità!); poi anche per la rigidità con la quale è stato concepito un sistema che non prevede vie d’uscita in caso di crisi, segno evidente che non ci si fida dei propri compagni di strada. Iper-libertaria per avere esaltato l’idea di una moneta senza stato, alimentando così l’illusione che la politica monetaria possa raggiungere la perfezione quando essa è ridotta a un fatto squisitamente tecnico.  

Basterà questa prospettiva? O non si rischia di mettere in ordine per bene e con grandi sacrifici un singolo appartamento all’interno di una struttura che non tiene per carenza di legami strutturali ossia  di fiducia politica?  Sembra chiaro che non potrà purtroppo funzionare.  Se anche usciremo, come speriamo, ‘a testa alta’ dalle asperità contingenti, non ci aspettano purtroppo le stelle (anche se spiccano sulla bandiera dell’Unione) perché non avremo fatto assolutamente nulla per rendere più sostenibile l’assetto complessivo del sistema di cui siamo parte.

Monti parla giustamente (es. in un suo notevole ‘fondo’ del 16 maggio 2010 sempre sul Corriere della sera) del necessario consenso che il progetto europeo richiede:  qui il senso delle parole diventa importante.   Quello che occorre infatti è colmare il  deficit democratico in Europa e costruire un consenso prima culturale e poi politico attorno all’idea di Europa. E’ illusorio pensare di poter continuare a procedere sulla linea di un’Europa puramente economica, perché sono proprio i passi compiuti in questa direzione a richiedere che si affronti direttamente il problema politico. Non ci sono scorciatoie:  neppure il rilancio, così fortemente motivato da Monti, del mercato unico  può esser visto come un modo per ‘distrarre’ la politica e l’opinione pubblica dai necessari interventi di politica monetaria e fiscale, bensì pericolosi (lo sono sempre, naturalmente), ma necessari in una situazione di gravissima crisi qual è quella in cui ci troviamo immersi.    La bontà di un sistema deve anche potersi valutare in base alle sua capacità di far fronte tempestivamente a situazioni impreviste e talora drammatiche. Oggi la UE (o per lo meno quella parte della UE che forma la c.d. ‘Eurolandia’) assomiglia a un condominio nel quale scoppia un incendio, ma non si possono chiamare i pompieri senza aver prima convocato l’assemblea.

La Banca Centrale Europea ha fatto molto per approntare strumenti d’intervento in un sistema che non prevede un prestatore di ultima istanza.  E’ da notare che tutte le Banche Centrali del mondo prevedono questa clausola, anche perché nascono quasi sempre da situazioni di crisi, proprio  come strumenti per porvi rimedio e per evitarne la reiterazione.  Ma da noi non c’è per scelta, chiaro segnale che non ci fida dei compagni di strada.  E’ allora soprattutto  qui, in sede europea che la crisi può diventare una opportunità. Gli economisti, se hanno un qualche carisma che sappia davvero servirsi della tecnica,  non possono evitare di dirlo ad alta voce, magari non solo in inglese ma anche in tedesco (come prova di maggiore europeismo), per dare una prospettiva democratica ai popoli di fronte a governi giustamente umiliati.

Accanto alle lucide tesi sul mercato unico, vorremmo dunque vedere qualcosa di più sui metodi e gli strumenti che possano da un lato consentire di guadagnare il consenso in Europa e, dall’altro anche   qualcosa di più nello ‘sporcarsi le mani’ con il breve periodo.   Il Trattato di Maastricht e il Patto di stabilità sono falliti: bisognerebbe dirlo a chiare lettere anche per meglio indirizzare le preziose energie intellettuali di molti giovani economisti applicati. Sono falliti come deve fallire ogni indirizzo macroeconomico troppo rigidamente monetarista.

Bisogna guardare oltre.  La temerità e il coraggio, che sono stati sin qui spesi per creare il sistema che abbiamo, dovrebbero ora andare nella direzione di proporre programmi politici capaci di coinvolgere le persone, ossia  i cittadini:   prima dei consumatori pensiamo ai cittadini della nuova Europa.

Credo che dalle situazioni di disagio non potremo uscire a breve.  Si tratterà di mettere in atto diverse strade di intervento, diversi strumenti a vari livelli.   La crisi sarà una opportunità se diverrà una scuola di nuova politica in un’ottica sopranazionale. Due guru come Anthony Giddens e Ulrich Beck si sono uniti in una dichiarazione solenne, una Lettera aperta sul futuro dell’Europa:  “L’Unione Europea  –  hanno scritto –  è il più riuscito e originale esperimento di costruzione  istituzionale dalla fine della seconda guerra mondiale”.  Essi stessi, tuttavia,  riconoscono che questa è una strada  in costruzione.   E’ importante saperlo per essere alla altezza delle sfide che noi stessi abbiamo posto in essere. Un grande statista come Oliver Cromwell  diceva che nessuno va tanto lontano come chi non sa dove andare. Umiltà e pragmatismo sono oggi qualità più che mai necessarie ai  capitani coraggiosi che ci governano. Purtroppo non sono qualità tipiche degli economisti, storicamente tenuti lontano dal potere  proprio perché saccenti e dottrinari.  

Ma  le eccezioni, per fortuna,  non mancano mai.

 

(Intervento al Convegno annuale della Fondazione Franceschi)