Banda del machete e gang sudamericane sempre più attive a Milano nonostante le retate della polizia. E’ quanto emerge da un’inchiesta del Corriere della Sera, che descrive la trasformazione della criminalità giovanile legata agli immigrati. Un fenomeno che coinvolge sempre più anche i minorenni milanesi e i cui confini con il bullismo comune sono spesso difficili da tracciare. Ilsussidiario.net ha intervistato Flavio Merlo, esperto di marginalità sociali e professore di Sociologia all’Università Cattolica, sul significato che queste trasformazioni acquistano per Milano.
Quali sono le cause del fenomeno delle gang sudamericane sempre più presenti a Milano?
Premesso che non disponiamo di un identikit puntuale di questi giovani, occorre partire da una distinzione tra i giovani immigrati di seconda generazione – nati in Italia e via via inseritisi nel contesto milanese attraverso le agenzie di socializzazione formali del nostro Paese – e quelli che si sono ricongiunti con i loro famigliari dopo un periodo più o meno lungo di distacco, probabilmente la maggioranza. Questi ultimi hanno spesso vissuto gli anni più delicati della loro formazione senza figure autorevoli al loro fianco, accuditi da parenti anziani e lontano dai loro genitori. In quel contesto, l’unica forma di socializzazione è stata quella del gruppo, della banda. Una volta ritrovati i propri genitori, diventati ormai degli estranei, l’imprinting è emerso come la sola strada percorribile. Per questo non si tratta di organizzazioni criminali come in passato, bensì di aggregazioni devianti, che spesso fanno della violenza il loro codice espressivo.
La scomposizione delle gang storiche in tante piccole bande rende il fenomeno meno pericoloso o più difficile da combattere?
La moltiplicazione delle bande e la loro polverizzazione è collegata all’assenza di gerarchie interne finalizzate al raggiungimento di uno scopo ben definito. Ciò determina due conseguenze: da un lato, senza minimizzare in alcun modo gli episodi di violenza, una minore pericolosità sociale di queste bande, dall’altro, una maggiore difficoltà a coglierne le dinamiche intrinseche. Ciò rende il fenomeno più difficile da controllare. Lo dimostrano i fatti di questi giorni: apparentemente, si tratta di violenze gratuite, che colpiscono a caso.
Se un tempo le gang giovanili erano composte solo da sudamericani, ora ne fanno parte anche gli italiani. Qual è il significato di questa trasformazione?
Il significato di questa trasformazione può essere individuato nelle dinamiche precedentemente descritte a proposito dei contesti famigliari e sociali di provenienza. Che cosa avvicina i ragazzi stranieri a quelli italiani? Che cosa li rende complici? Il fatto che, molto spesso, tutti hanno attraversato una serie di eventi traumatici che li ha resi insensibili alle regole, solitari protagonisti di una rappresentazione priva di un vero copione da seguire. In questo vuoto, il più forte diventa il modello da seguire. La dimensione adolescenziale prevale su qualsiasi altra categoria interpretativa.
Fino a che punto il confine tra bullismo e gang violente è netto e fino a che punto è facile passare dall’uno all’altro fenomeno?
Si tratta di confini molto sottili, spesso presenti più nella testa dei sociologi che nella realtà. Io penso che la differenza stia nella dimensione dell’appartenenza. Il bullismo non genera appartenenza sociale, identità di gruppo; la gang sì. Per questo utilizza dei codici. Per questo ci sono i tatuaggi, le tags, i simboli … Semplificando, il bullismo è un modo per dire che io esisto; la gang è per dire che noi esistiamo.
Il fenomeno del bullismo si sta intensificando a Milano?
Il bullismo nasce dal disimpegno morale di coloro che lo agiscono. Riassumo e semplifico questo disimpegno con due formule estreme: da un alto, “non c’è niente di male”, dall’altro, “in fondo, (la vittima) se l’è cercata”. Questo fa paura, per la mancata assunzione di responsabilità e per l’autogiustificazionismo.
Che cosa ne pensa del “modello Genova”, che ha utilizzato le bande come canale di integrazione?
Risulta sempre difficile replicare delle esperienze in ambito sociale. In questo caso, poi, siamo di fronte a delle sub-culture, talvolta a delle contro-culture, che hanno una visione del mondo specifica. Qui, il dato che mi pare evidente è la destrutturazione del gruppo. C’è il più forte, il “vecchio”, colui che porta sul suo corpo il maggior numero di decorazioni (ferite), e poi ci sono gli altri. In questo contesto, il gruppo non offre un numero adeguato di ”nodi” – gerarchie – che facilitano l’intervento. L’intervento risulta possibile laddove esistono sponde capaci di contenere l’intervento; laddove la realtà è in continuo divenire, il tentativo di trovare sponde risulta perdente. Le forze dell’ordine hanno arrestato diversi membri delle gang giovanili.
Che cosa fare per evitare che l’esperienza del carcere per questi ragazzi diventi la porta d’ingresso nel mondo criminale degli adulti?
Questi ragazzi hanno bisogno di trovare un loro posto nel mondo. Ma ciascuno ha un posto se gli viene riconosciuto, se lo stare in quella condizione genera riconoscimento e fiducia. Occorre impedire che l’ingresso nel carcere sia l’inizio di una carriera deviante irreversibile e che il codice della violenza diventi l’unico linguaggio agito da questi ragazzi. Con tempo e pazienza, occorre insegnare loro che ciascuno di loro è importante, ha valore, può fare qualcosa di buono per sé e per gli altri. La natura umana è relazione; ma non tutte le relazioni sono positive. E comunque, per non cadere nella tentazione di facili formule, mi piace ricordare le disincantate parole con cui Livia Pomodoro chiude il suo bellissimo libro “A quattordici smetto”, quando, al telefono con la sorella, assistendo al comportamento border-line di alcuni ragazzi le chiede: “Tu cosa faresti? Forse devo avvertire la polizia”. Mi rispose: “Se chiami la polizia che cosa sarà di loro?”. E io: “Ma potrebbero farsi male e anche provocare qualche disastro …”. Lei, tagliando corto, concluse: “Se non sai tu che cosa fare! Fa come credi, chiama la polizia”. Riattaccai il ricevitore e chiusi le finestre. Non si tratta di una resa, bensì della constatazione che non sono i meccanismi del controllo sociale la forma più idonea di intervento.
(Pietro Vernizzi)