Premetto che la mia è una reazione molto “a caldo”: in ogni caso “a caldo” non vuol dire “istintiva”, almeno me lo auguro.
Non bisogna dare assolutamente per scontate le parole che il Card. Scola ha rivolto ieri alla città di Milano. Ci sarà tempo per riflettere sull’allargamento di prospettiva (e nel mio caso personale anche di cuore) che il suo discorso richiede, ma il contraccolpo o c’è subito, o non c’è. Non è un caso, tra l’altro, che di tutti coloro che hanno fatto grande Milano manchi, in città, un monumento dedicato proprio a S. Ambrogio. E’ un segno preciso e inequivocabile: vuol dire che esiste una parte di città che magari alle parole del nostro Arcivescovo scuote la testa in segno di approvazione, ma che della loro sostanza non ne vuole sapere.
Il richiamo a un’interpretazione corrente – e corriva – dell’attuale crisi, dopo un rapido ed efficace ritratto di S. Ambrogio (nella cui figura il lettore attento non tarderà a riconoscere un ritratto molto preciso della nostra intera città, come se i suoi caratteri peculiari fossero quelli, conservati nel proprio dna, del Santo Patrono nonché padre fondatore), mette in guardia fin da subito i cristiani e gli uomini di buona volontà contro le finzioni letterarie con le quali molti degli attuali gestori della crisi la presentano in termini incomprensibili, generando un ulteriore (come se non esistesse già) allontanamento della società civile da coloro che dovrebbero esserne i garanti (politici, giornalisti, operatori finanziari). Chi agisce così lo fa deliberatamente e pro domo sua.
E’ significativo il modo in cui il Cardinale prende le distanze da questo tipo di interpretazioni. La prima mossa non è quella di un’opposizione teorica ma di un richiamo alla libertà personale. Parlando di travaglio e di transizione, Scola cita il Vangelo di Giovanni mostrandone tutta l’implicazione per la libertà personale: i dolori del parto verranno dimenticati a causa della gioia per la nuova vita che è venuta al mondo, ma – c’è infatti un “ma” – questo dipenderà dal modo di affrontare quelle sofferenze, dalla forza dell’attesa, dalla domanda con cui il periodo difficile è stato letto e vissuto. All’origine della possibilità di uscire dalla crisi, insomma, c’è la mossa della nostra libertà.
Di qui, l’introduzione (ed è la pagina da leggere con maggiore attenzione, perché qui il rischio della scontatezza è fortissimo) di un ribaltamento nella lettura della crisi: da crisi economico-finanziaria a crisi, anzitutto, antropologica.



C’è gente, come dicevo, che di queste cose non vuol sentir parlare. Dopo la crisi dei subprime del 2007 mi sentii dare pubblicamente del cretino da un galletto che dirige un museo cittadino perché avevo osato mettere in relazione il precipizio dei mutui americani con uno sfasamento antropologico, per cui, sorpresa!, esistevano regioni dell’agire umano nelle quali – non essendo prevista alcuna restrizione di legge – l’avidità umana si sentiva in diritto di sfogarsi senza più alcun freno inibitorio. Lo stesso individuo scosse la testa, infastidito, perché parlai di crisi della fiducia, e mi piacerebbe tanto vedere cosa risponderebbe ora che il Cardinale di Milano, con ben altra autorevolezza, dice queste stesse cose. 
Una cosa infatti è sacrosanta: proprio perché è necessaria una mossa della libertà, la prima mossa – quella dell’uscire da sé – è quella decisiva: dalla crisi si esce insieme, perché la natura dell’uomo è comunitaria, e l’individualismo tarpa le ali della persona.
Ma il discorso di Scola è anche un discorso da vero pastore e, se posso osare, da vero padre della nostra città. Lascio a un’ulteriore riflessione la bellissima pagina dedicata al rapporto ricchezza-felicità, al senso della cosiddetta secolarizzazione (un fenomeno di cui non si parla più e che è, viceversa, all’origine della crisi) e ai risvolti umani di un modus vivendi impostato su un cattivo uso dei beni materiali. Preferisco concludere sul tono con cui il nostro Arcivescovo tratta la questione delle “pratiche virtuose già in atto”, di cui la città è piena ma che proprio perciò vanno affrontate, nell’ottica di un sostegno vigoroso, con molta oculatezza. La materia, infatti, è delicata e il dibattito sull’argomento non ha prodotto molta buona politica. 
Anche qui, occorre tener conto che esiste tutta una parte di questa città, con solide rappresentanze nella politica e negli ambienti sociali “che contano”, che al solo sentir parlare di pratiche virtuose girano la testa dall’altra parte. Questa gente è persuasa: 1) che Milano è una città completamente degradata, dominata da camorra, ‘ndrangheta e dove i politici hanno praticato la corruzione come modalità normale  di gestione della città e 2) che, se una salvezza è possibile, essa verrà grazie a loro, alle loro strategie, alla loro capacità di “fare rete” coinvolgendo amministratori, stakeholders & Co. in una rete capace di “intercettare” sempre e solo i bisogni (se va bene) e quasi mai per non dire mai i tentativi di soluzione già in atto, opera di libere iniziative della società civile. A queste persone non si può rispondere con quel trionfalismo retorico che ha caratterizzato e caratterizza, almeno in parte, altre forze politiche. 



Il discorso di Scola ha trattato molti altri temi, da quello riguardante la natura del lavoro (termine quantomai equivocato, al presente) a quello dei giovani, decisivo in tutti i sensi: non si tratta soltanto, infatti, di sviluppare politiche di sostegno ai giovani (qualcosa del genere sta, pallidamente, tentando di fare anche il nuovo Governo) ma di imparare da loro, dalla vivacità con la quale vivono le domande più importanti e dalla loro disponibilità al sacrificio. 
Ma, come detto, riprendere tutte le suggestioni contenute in questo fondamentale discorso, che segna e segnerà una pietra miliare nella storia politica e culturale milanese dei nostri anni, sarebbe impossibile. La sua forza tellurica, secondo me, sta nel modo in cui, con felice spregiudicatezza, sottomette tutte le possibili uscite dalla crisi ad una forte posizione della libertà personale. Una posizione che implica anche una conversione  dell’io, in una città che, per storia, proprio su questa dimensione personale e sociale (dove altri hanno visto prevalere le logiche di potere) ha basato la propria forza secolare. 

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