Sant’Ambrogio è forse la più bella chiesa di Milano, certo la più significativa nella storia della città. Se ne accorse a suo tempo il toscano Giuseppe Giusti, che trovandosi a Milano nel 1845 ospite di Manzoni, ne parla in una nota poesia indirizzata a un indeterminato funzionario di polizia. Le ottave di endecasillabi rendono bene l’andamento popolare della composizione, a metà tra lo scherzoso e il commosso.



Vostra Eccellenza che mi sta in cagnesco

per que’ pochi scherzucci di dozzina,

e mi gabella per anti-tedesco

perché metto le birbe alla berlina,

o senta il caso avvenuto di fresco

a me, che girellando una mattina,

capito in Sant’Ambrogio di Milano,

in quello vecchio, là, fuori di mano.

M’era compagno il figlio giovinetto



d’un di que’ capi un po’ pericolosi,

di quel tal Sandro, autor d’un romanzetto

ove si tratta di Promessi Sposi…

Che fa il nesci, Eccellenza? o non l’ha letto?

Ah, intendo: il suo cervel, Dio lo riposi,

in tutt’altre faccende affaccendato,

a questa roba è morto sotterrato.

La basilica è gremita di militari dell’esercito austriaco, provenienti dalla Boemia e dalla Croazia. Tanto basta perché l’autore, liberale moderato, provi un moto di ripulsa alla vista di tanti soldati stranieri di stanza in Lombardia.

Mi tenni indietro; chè, piovuto in mezzo

di quella maramaglia, io non lo nego



d’aver provato un senso di ribrezzo

che lei non prova in grazia dell’impiego.

Sentiva un’afa, un alito di lezzo;

scusi, Eccellenza, mi parean di sego,

in quella bella casa del Signore,

fin le candele dell’altar maggiore.

Ma nel momento più solenne della Messa si leva la voce delle trombe in una preghiera di supplica. E’ un’aria ben nota e cara ai patrioti italiani:

Era un coro del Verdi; il coro a Dio

là de’ Lombardi miseri assetati;

quello: O Signore, dal tetto natio,

che tanti petti ha scossi e inebriati.

Qui cominciai a non esser più io;

e come se que’ cosi doventati

fossero gente della nostra gente,

entrai nel branco involontariamente.

Poi si leva un lento canto in tedesco, solenne e grave, che esprime la preghiera e la tristezza di uomini costretti a stare lontano dal proprio paese; l’armonia inconsueta del canto commuove il poeta, che vi riconosce accenti comuni a tutti gli uomini:

 

Sentia nell’inno la dolcezza amara

de’ canti uditi da fanciullo; il core

che da voce domestica gl’impara

ce li ripete i giorni del dolore:

un pensier mesto della madre cara,

un desiderio di pace e di amore,

uno sgomento di lontano esilio

che mi faceva andare in visibilio.

 

L’iniziale avversione si muta così nel pensiero della sorte comune. Piccolo miracolo di un luogo che, persino nella sua pianta, afferma l’unità di una civiltà, nella distinzione della sfera civile e di quella religiosa e che accoglie nelle sue campate il dispiegarsi della musica e l’elevarsi della commozione.